Le parole del sindaco non raccontano la realtà, la costruiscono. O forse sono io che non so cogliere le strutture del reale, i criteri di pertinenza dei fatti. Sono io che costruisco con il suo raccontare, che cerco di racchiudere negli schemi del credibile il suo mondo possibile…

Anni ’60. In pieno inverno, in un paese delle Alpi piemontesi, un commissario di polizia comincia a indagare sulla morte di una ragazza del luogo, Rosetta. Indagini in incognito, per il delitto avvenuto nel 1944. Referente e tramite è il sindaco, un anziano chiacchierone, sospeso tra rievocazioni insignificanti e allusione vaghe. Una mitologia di “oggetti imprecisi, che si annidano nei solai più polverosi del nostro cervello e perdono il contatto con la realtà.” Una galleria vorticosa di personaggi e macchiette, vivi o defunti, su cui si appunta l’attenzione del commissario.

Che cosa si cela dietro la morte della ventenne Rosetta? Chi ha deciso di riaprire il caso, a distanza di due decenni? Su quale terreno minato si sta muovendo il commissario, a mano a mano che penetra nei meandri di un passato cancellato di proposito?

Pur senza un cadavere o prove tangibili da cui partire, il commissario ricostruisce la vicenda familiare di Rosetta, si addentra in un labirinto di messaggi criptati, finché un espediente legato alla prospettiva anamorfica (che consente di scorgere la forma di un oggetto, collocandosi in una posizione prestabilita rispetto al dipinto, oppure osservando lo stesso attraverso un vetro di forma particolare) lo conduce alla soluzione. Soluzione che definitiva non è.

In bilico tra l’ipocrisia del presente e la labilità del passato, giostrata sulle linee narrative del sindaco e del commissario, in continuo contrappunto, la pagina del romanzo d’esordio di Alessandro Perissinotto, semiologo e folclorista, cattura per il ritmo, la freschezza linguistica e i colpi di scena, abilmente orchestrati.