Riflessione poetico-esistenziale percorsa da venature filosofiche e a tratti politiche, Viaggi Elementali di Anna Maria Farabbi è una narrazione sperimentale che cuce insieme tre piccoli diari, ciascuno il frutto di un viaggio distinto in luoghi reali o immaginali che fungono da portali verso l’ignoto e verso il sussulto del risveglio, che è poi la sostanza della storia che leggiamo. Racchiusi dentro una fragile quanto preziosa cornice – la premessa, o il perché del voler unire questi tre quaderni, e la pagina di conclusione finale – i tre puntelli del viaggio ci trasportano via via nel midollo della scrittura, attraverso incontri e scoperte fatte dalla narratrice-viandante-poeta, nel suo sostare in un luogo rispetto al successivo e al precedente.
“Sono una poeta che crea quaderni entrando”, afferma l’io narrante, o meglio “ionulla” come lei stessa si definisce nel corso del libro, ed entrare è quello che richiede la scrittura, non solo da parte di chi legge, ma anche e innanzitutto di chi scrive. In punta di cuore, si entra nel solco delle parole scivolando nella loro promessa di comprensione e rivelazione, dopo che l’incontro si è ormai sedimentato nella memoria. Un eremo umbro accoglie la narratrice nella sua intenzione di unire tutte le scoperte scavate dalla parola nella carta e dagli elementi nel suo corpo in ascolto durante i tre viaggi. Il viaggio è per lei condizione necessaria all’ascolto, un viaggio “organico, biologico” e associato agli elementi che si frizionano contro il corpo-verità verticale, e tutto l’insieme di questi tasselli diventa la sostanza della sua scrittura. Quello della protagonista-poeta-viandante è un viaggio dei cinque sensi, che in diverse discipline marziali e meditative orientali comprendono gli occhi, le orecchie, il naso, la lingua ma anche il corpo nella sua interezza e in ogni sua parte, ossia ogni suo elemento, che a sua volta richiama i cinque elementi fondanti dell’universo: terra, legno (secondo la teoria cinese dei Cinque Elementi comprendente anche l’aria), acqua, fuoco e metallo. Nell’attraversamento di tutti e cinque gli elementi nelle loro diverse incarnazioni, la protagonista procedererà dentro un “viaggio di sottrazione” per arrivare finalmente al centro, e finalmente la poesia da tutti condizionamenti.
Si parte dal deserto dei Tuareg, dove a brillare sono la sabbia, ossia la terra su cui camminare e sedere in circolo, il legno dei bastoni e della vegetazione scarnificata all’estremo, il fuoco del sole e dei falò, ma anche la promessa d’acqua, le oasi. Camminando, ionulla si spoglia dei pensieri, “concentrata nel ritmo e nel mantice del respiro.” Nella denuncia della guida, che avverte come l’antica cultura delle popolazioni nomadi si vada sfilacciando nel suo progressivo piegarsi all’esotismo, la viandante-poeta trova un filo da cui partire; nel dono del primo quaderno che la guida stessa le fa può far srotolare quel filo, e disporlo a raggiera dentro e fuori dal cuore. E le parole partono il proprio percorso, verso l’acqua, facendosi “liquido mantra dentro cui l’origine transita”, ogni granello di sabbia contenente il proprio deserto e viceversa, così come ogni essere contiene in sé la propria nascita e la vastità dell’universo. Stare nel deserto diventa così un “imparare la poesia tra le polveri […] per fare anche con le polveri un pane” e poi proseguire, verso un altro viaggio.
La seconda tappa ci porta a Kyoto, nella “orchestra vegetale” dei suoi giardini, ossia nel cuore del legno e dell’aria. La viandante-poeta incontra un rotolo di calligrafia in un negozio di antiquariato e viene intimata con gentilezza ma con fermezza da chi glielo offre con queste parole: “governati nella sua voce, entrando nella cruna profonda”. Accogli il tuo corpo che è forma, come forme sono quelle che incontrerai in altri giardini e fra le tombe, e i monasteri. “Gli alberi scrivono le verticali dalla terra al cielo” e ne tracciano dunque i respiri. In quanto shiki, forma appunto, il corpo può assumere varie sembianze: albero, pianta, neve, uccello, e visto che le cose si trasformano di continuo, la loro forma è qualcosa di impermanente e in definitiva senza sostanza. Recipiente sempre vuoto e sempre colmo al tempo stesso, la forma del corpo sa porsi in ascolto e attendere l’incontro col fulmine della poesia, lo “scarabocchio divino” tracciato per terra dall’universo, una neve senza suono che attraversa e ionulla “dentro la nevicata diventa e scompare” a sua volta, ritrovandosi nell’indistinto.
La terza sosta è in un misterioso luogo del mediterraneo, i sola, dove la viandante-poeta accetta di vivere per sei mesi come custode di un faro, assunta da una signora ottantenne di nome Lán兰. Circondata dal mare, ionulla vive nel concavo utero dell’i sola, che assorbe il liquido dell’elemento acqueo nutrendolo a sua volta. Dopo aver vissuto il bruciare intenso del deserto e la saetta improvvisa della neve, la viandante-poeta si scopre vestale, la sua poesia a venire da imprimere sul terzo quaderno una collana di parole “che può vegliare e cantare il profondo”. E il suo canto si fa scoperta di altre parole, racchiuse in una scatola che la proprietaria ha nascosto sotto terra, forse per pudore o forse affinché ionulla la trovasse: sono parole-testimonianza incise su fogli di carta, “come corpi porosi, gonfi, irrigati di inchiostro.” Sono il fuoco delle lacrime e il metallo della tortura, canti di bambine stuprate e straziate, bambini inseguiti da trafficanti di organi, “una brace di orfani” che muore dimenticata nelle varie guerre in corso nel mondo o negli angoli di crudele e ordinaria sopraffazione. Perché la poesia non può ridursi a “funambolismo dell’inchiostro” ma, ci dice ionulla, deve farsi “cantica del presente” e pienezza di illuminazione, ensō.
E infatti il canto scende in apnea, dentro l’acqua dei sogni, in quella “unica cellula rimasta dell’io” che diventa aria e poi ku, parola che chiude il terzo quaderno spalancandolo di senso. Si tratta di un carattere,空, originariamente cinese e pronunciato come kōng, ma che viene usato anche in giapponese, lingua a cui l’autrice fa spesso riferimento nel corso del libro. In Giappone, il carattere 空 si può in realtà pronunciare in diversi modi, ciascuno dei quali rimanda a significati diversi, tutti compresi nel carattere originale cinese: “sora” (cielo), “kara” (vuoto), “akeru” (svuotare) e infine “ku”, quello appunto scelto da Farabbi; ku nella disciplina del karate indica la difesa del corpo dal nemico senza l’uso di armi. Il corpo della poeta si difende infatti dai colpi della violenza, rappresa nelle parole dei bambini, abbandonandosi alla sua verità e infine liberandola, una volta fatto ritorno al centro-cerchio dell’essere, l’ensō che si libra e si spande come un uccello oltre la pagina, dopo aver compiuti tutti e tre i viaggi e ritorno, nell’eremo umbro che li racchiude.

Caratterizzato da una prosa poetico-filosofica costellata da veri e propri frammenti di poesia che a tratti ricorda Il silenzio è cosa viva di Chandra Livia Candiani, Viaggi elementali è un libro dolente e fiammeggiante insieme, fluttuante ed etereo come la neve e vivido come il fuoco, immerso nell’acqua delle parole e negli spari delle pallottole, che sa mescolare sapientemente singulti di denuncia politica e sociale a filigrane di meditazione.
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