Il nuovo romanzo di Stuart MacBride, La stanza delle torture (Shutter the Bones, 2011), è la settima attesa avventura delle forze del CID (Criminal Investigation Department: corpo di polizia che opera in borghese e indaga su reati di carattere criminale) di Aberdeen (Scozia), le cui storie personali e professionali si intersecano arricchendo la vicenda principale: la corsa contro il tempo del sergente Logan McRae per salvare delle vittime di un rapimento.

 

Jenny McGregor è una giovanissima star del mondo dello spettacolo, di quel mondo sempre in affannosa ricerca di “volti nuovi” e sempre pronto a gettare nel calderone qualcuno dei tanti aspiranti che non vedono l’ora di fare il tuffo. Ora però Jenny e sua madre Alison sono state rapite e la polizia ha ricevuto un pollice mozzato a riprova che non si tratta di uno scherzo. Inizia un conto alla rovescia particolare: mentre la polizia ha 14 giorni di tempo per scovare il rapitore (o i rapitori), l’opinione pubblica ha lo stesso numero di giorni per raccogliere fondi (per esempio comprando su iTunes le canzoni di Jenny, il cui ricavato andrà ad arricchire il “fondo riscatto”) per pagare un riscatto da capogiro.

Intanto i famigerati tabloid britannici sparano a zero sull’inefficienza della polizia. (Con parole che farebbero arrossire il più agguerrito giornalista italiano!) In particolare Michael Larson accusa di cecità le forze dell’ordine, che - secondo lui - non si rendono conto che il rapimento della piccola Jenny è solo una trovata pubblicitaria della sua casa discografica, che già in passato non ha avuto scrupoli nel concepire campagne pubblicitarie al limite della legalità (e del buon gusto).

Oltre al caso del rapimento di Jenny, però, gli uomini del commissariato di Aberdeen devono occuparsi anche di un pericoloso spacciatore locale, Shaky Jake, specializzato in droga di pessima qualità e in atti di violenza varia. La retata contro lo spacciatore non va affatto come sperato e un caso in teoria già chiuso diventa spinoso e gravido di pessime conseguenze a causa di “difficoltà operative” (termine burocratico che indica l’incompetenza di qualche agente).

Come se non bastasse, il sergente McRae deve anche vedersela con una ridicola accusa di stupro: per quanto sia priva di fondamento, è pur sempre un’accusa molto grave per un poliziotto.

   

Siamo nell’Inghilterra di oggi, totalmente frastornata dall’eco mediatica di trasmissioni d’ogni genere - tutte poi arrivate anche in Italia - in cui il pubblico sogna di raggiungere un qualsiasi tipo di fama («degli imbecilli si abbassano a fare delle figure di merda, pur di apparire in TV»), chiedendosi come sia stato possibile vivere prima dell’avvento dei reality. In questo mondo di falsa realtà e di antichità moderne i veri poliziotti di Aberdeen devono continuamente confrontarsi con i propri falsi colleghi televisivi («Questo non è un telefilm. Io non posso tirar fuori un DNA da un cappello a cilindro in tempo per gli spot pubblicitari»), arrivando giustamente a far notare che il lavoro investigativo è vanificato dall’eccessivo realismo del mondo televisivo («Ecco cosa succede quando fai vedere in TV i nostri metodi di lavoro... ogni fottutissimo criminale riceve lezioni settimanali su come commettere un reato e farla franca»).

La critica di fondo è chiara, sebbene non certo condivisa dal pubblico: «questa è la vera causa del rapimento di Jenny e Alison McGregor. Se non fossero apparse in TV non sarebbero diventate famose, e se non fossero diventate famose non sarebbero state rapite». I rapimenti, sia ben chiaro, esistevano anche prima dell’avvento della TV-spazzatura, ma il grado di notorietà che questa offre alle persone più disparate - anche minorenni - è innegabilmente amplificato. Così come non è certo una novità che la morte – e la sofferenza - siano oro colato in TV...  «Per i media quella tragedia era come una manna dal cielo, offriva loro la possibilità di aizzare le ire dei lettori e dei telespettatori, di stampare e trasmettere notizie e immagini sconvolgenti, salaci e licenziose, tutto con la scusa che i rapitori avrebbero ucciso Jenny e Alison McGregor se loro non lo avessero fatto».

     

Storie di commissariati di polizia ce ne sono tante, ma la particolarità de La stanza delle torture è che l’autore si aggiorna al mondo moderno e testimonia del cambiamento di ogni più profondo aspetto della società grazie alla (o per colpa della) invasione del mondo televisivo dei reality. Oggi nessun romanzo giallo può esimersi anche solo dal citare il substrato culturale - infarcito di sogni di fama per i quali si è disposti a tutto, e di voglia di guardare in TV i vizi altrui - in cui ogni crimine, anche quello letterario, ormai affonda le radici.

  

Un’ultima parola va spesa per lodare l’operato di Tino Lamberti, consueto traduttore di MacBride. Non è facile per il lettore italiano navigare nel mare magnum di titoli di reality britannici, nel fiume di cariche della polizia, di nomignoli e di quant’altro appartenga esclusivamente al mondo britannico: l’ingrato compito di Lamberti è stato quello di trasformare il tutto in un testo perfettamente leggibile dal lettore italiano, con dovizia di note esplicative che permettono di non lasciarsi sfuggire alcun particolare della narrazione dell’autore.