Un’altra trilogia arriva a compimento nelle edicole, grazie alla collana “Bruce Lee e il grande cinema delle arti marziali”, firmata Gazzetta dello Sport e Stefano Di Marino: dopo “Once Upon a Time in China”, anche la saga della Camera dello Shaolin arriva al terzo episodio, dal titolo “I discepoli della 36ª camera” (Pi li shi jie, 1985).

Dopo “La 36ª camera dello Shaolin” e “Ritorno alla 36ª Camera”, Liu Chia-liang torna a raccontarci una storia marziale con protagonista il fratello adottivo Gordon Liu, una volta ancora nei panni del monaco San Te: ma stavolta non è solo, visto che un’altra leggenda cinese gli viene affiancata, quel Fong Sai-yuk che abbiamo incontrato qualche settimana fa nel film “Heroes Two”.

Il giovane Fong Sai-yuk (Hsiao Ho) è un combattente dotato ma anche uno studente svogliato (nonché spesso inguaiato). Intanto gli ufficiali dei Manciù stanno imponendo con la forza la propria egemonia e cercano di chiudere la scuola del padre di Fong: il giovane si ribella al sopruso e combatte contro il capo dei Manciù (Liu Chia-liang). Per evitare che venga giustiziato, la madre di Fong (Lily Li) lo porta a nascondersi nel Tempio di Shaolin, affidandolo alle cure del monaco San Te (Gordon Liu), che dirige la 36ª camera del monastero: quella cioè dedicata ai laici che vogliono ribellarsi ai Manciù. Il giovane è indomito e sarà dura per San Te tenerlo lontano dai guai e soprattutto dalla rabbia dei Manciù.

Malgrado la pellicola abbia tutte le carte in regola per proporsi come capolavoro del genere, il risultato in realtà non si discosta molto dal canone di un normalissimo gongfupian di media qualità. Il talentuoso e carismatico Gordon Liu è relegato in un angolo, mentre tutta la scena è per un Hsiao Ho assolutamente non in grado di reggere il ruolo da protagonista, soprattutto visto che le tematiche del film sembrano più interessate a ripercorrere i passi compiuti dal primo titolo della serie, piuttosto che a proporre novità al pubblico.

Malgrado la presenza di così grandi nomi del cinema marziale, compresa la talentuosa Lily Li - che molti ricordano tenere a bada Jackie Chan in uno storico combattimento del film “Il ventaglio bianco” - la storia sembra più interessata a raccontare storie goliardiche e semi-comiche, com’era d’uso all’epoca, per poi lasciare la serietà solo nel finale.

Forse proprio questi rigidi canoni stilistici hanno decretato la fine della collaborazione del regista Liu Chia-liang con la storica casa cinematografica Shaw Bros: dopo il successivo “Martial Arts of Shaolin” (1986), con un giovanissimo Jet Li, il regista infatti cambia casa e genere, dedicandosi ai polizieschi moderni.

 

Una curiosità. Nel 2004 il gruppo rapper statunitense Wu-Tang Clan, attentissimo a tutta la produzione marziale di Hong Kong anni ’70, fa uscire l’album musicale “Disciples of the 36 Chambers”, con chiari intenti citazionistici.