La settima uscita de “Bruce Lee e il grande cinema delle arti marziali”, targato Gazzetta dello Sport e curato da Stefano Di Marino, rappresenta una vera pietra miliare del cinema marziale: mentre il precedente “Drunken Master” segna la nascita del comedy kung fu, “La 36ª camera dello Shaolin” (Shao Lin san shi liu fang) da una parte cristallizza l’epica cinese resa celebre da registi come Chang Cheh e dall’altra fa esplodere la passione per i film dedicati ad un’istituzione nazionale, il Tempio di Shaolin. Inoltre, lancia nel firmamento cinematografico Gordon Liu, da allora interprete famoso in tutto il mondo.

Come troppo spesso succede, quando si parla di questo genere di film, dall’espressione “in tutto il mondo” va sempre scorporato il nostro Paese che, finita la “mania marziale” degli anni Settanta, è scarsamente interessato alla distribuzione di eccellenti prodotti asiatici. Il film in questione vede un’edizione digitale in italiano solo nel 2007, grazie all’illuminato sodalizio fra la nostrana AVO Film e la Celestial Picture che, meritoriamente, ha ridigitalizzato molti grandi prodotti del cinema cinese degli anni Settanta. Paradossalmente, quindi, l’attore Gordon Liu è quasi totalmente sconosciuto in Italia quando viene proiettato “Kill Bill” di Quentin Tarantino, il quale sceglie Liu per omaggiare un grande interprete marziale: solo dopo il film tarantiniano verranno finalmente distribuite nel nostro Paese alcune pellicole con il bravo attore.

Nel 1978 - un anno prima che Yuen Woo-ping esordisse alla regia con “Il Serpente all’ombra dell’Aquila” e “Drunken Master”, regalando successo e notorietà a Jackie Chan - l’apprezzato coreografo Liu Chia Liang ha la sua occasione per cimentarsi nella regia. Sceglie come tema una storia legata ad un’istituzione cara ai cinesi: il Tempio di Shaolin, per tradizione culla del kung fu e simbolo dell’eroica resistenza all’invasore. Durante la Dinastia Qing (cioè in un periodo imprecisato di tempo che va dal 1644 al 1911! Ma i fatti si svolgono plausibilmente agli inizi dell’Ottocento), i

Manchu fecero del Monastero il simbolo della sottomissione cinese e dopo aver distrutto quello del nord ripiegarono sullo Shaolin del sud, incontrando una fenomenale resistenza di lottatori addestrati in modo eccezionale. Malgrado l’eroica ed epica battaglia finale, dice la tradizione, solo cinque di questi lottatori si salvarono dalla distruzione: andarono così fra la gente ad insegnare i cinque stili base del kung fu perché più persone del popolo si ribellassero all’oppressione dell’invasore.

Al di là della veridicità storica - sembra che lo Shaolin in realtà si sottomise all’invasore evitando così la distruzione - in questa atmosfera a metà fra l’epica e la propaganda, fra la tradizione e il folklore, si muove la pellicola “La 36ª camera dello Shaolin”, molto più di un semplice gongfupian (film in cui ci si batte a mani nude): è una ricostruzione storico-epica di rara ispirazione.

Il protagonista, Liu Yingde, è interpretato dal fratello adottivo del regista: Lau Kar-leung, in seguito conosciuto a livello internazionale come Gordon Liu. Interpreta un giovane che mal sopporta l’occupazione de Manchu, ha subìto le angherie di uno dei loro generali, Tien Ta - interpretato dal celebre Lo Lieh, protagonista di “Cinque dita di violenza” - e, divenuto un ricercato, decide di entrare nel Tempio di Shaolin per imparare il kung fu, disciplina quasi magica che è convinto l’aiuterà a scacciare l’invasore.

Scoprirà che non è così facile entrare a far parte delle schiere dei monaci guerrieri, così come non lo è superare le dure prove delle 35 camere del

Tempio. Una volta divenuto un fenomenale monaco guerriero e preso il nome di San Te - che significa “tre virtù” -, sfiderà e sconfiggerà il generale Tien Ta e la sua cricca ed inaugurerà una 36ª camera nel Monastero, dove addestrerà personalmente tutti gli uomini che vorranno diventare guerrieri contro i Manchu.

Malgrado il monaco San Te sia un uomo che la tradizione cinese vuole realmente esistito, le cui vicende corrispondono a quelle del film, lo stesso il personaggio è più simile alla leggenda che narra le sue imprese piuttosto che alla cronaca storica.

Il film sicuramente segue il solco tracciato da “Shaolin Temple” (Shao Lin si, 1976) di Chang Cheh, ma si discosta dai vari film sullo stesso tema grazie ad una regia sicura e ad un’interpretazione strepitosa. Gordon Liu raramente in seguito poté recitare con i propri capelli: l’immagine del monaco San Te rimase talmente impressa al pubblico che da quel momento in poi l’attore è quasi sempre apparso sullo schermo con la testa rasata.

Liu Chia Liang porterà di nuovo Gordon Liu a vestire i panni del monaco San Te per altri due sequel di questo film, più fedeli rispetto a tanti cloni usciti all’epoca, ma lo stesso di meno impatto rispetto al film del 1978. I due film in questione sono “Ritorno alla 36ª camera” (Shao Lin da peng da shi, 1980) e “I discepoli della 36ª camera” (Pi li shi jie, 1985), ma essendo questi inseriti nel piano dell’opera delle uscite marziali della Gazzetta dello Sport, avremo modo di parlarne meglio.