Il silenzio che parla più di mille parole…

Se questa volta elogio il silenzio non posso mica farla tanto lunga: Il bosco morto di James Sallis, Giano 2008.

“Turner è un veterano del Vietnam, ex agente di polizia, ex detenuto, una laurea in psicologia ottenuta dietro le sbarre. Un uomo che, uscito dal carcere ha deciso di lasciarsi alle spalle tutte le sue passate esistenze per rifugiarsi in una capanna nei boschi che circondano una sperduta cittadina rurale del Tennessee…Un giorno riceve la visita dello sceriffo del luogo, in cerca di aiuto nel tentativo di risolvere l’assurdo e rituale omicidio di un vagabondo…”

Inchiodato ad una specie di traliccio metallico con le braccia incrociate sopra la testa, i polsi rivolti all’esterno ed un paletto conficcato nel petto. In seguito sapremo che si tratta di Carl Hazelwood dal cui taccuino continua a saltar fuori la sigla BR (non sono le Brigate Rosse!).

Turner racconta in prima persona. Mischiati con i fatti del caso i ricordi della vita del protagonista. Duri, secchi, incisivi. Spietati. Come gli autori dei crimini. La fine dei suoi compagni di lavoro: Nabors finito in un centro di riabilitazione, Gardner con la gola squarciata dal coltello di un “puttaniere”, e poi Stivaletto e il Brillantina (soprannomi) quest’ultimo che si becca una zappata in testa e l’ebreo Randy che di testa invece va fuori, si riprende, muore in un’altra azione, il suicidio di Brian (ma così a braccio non ricordo se era un collega di lavoro e non ho voglia di riprendere in mano il libro…).

E poi la sua vita in cella, il suo omicidio per difendersi. Casi mai risolti del passato con vittime stuprate, colpite, spaccate, incendi dolosi. Una litania di miserie e dolori senza un appunto, un pur semplice commento. Così come nudi e crudi vengono allineati quelli del presente: bambini sfruttati, seviziati, ragazzi di strada allo sbando. Violenza che chiama violenza.

Il senso dell’errore “Nessuno agiva secondo il regolamento, alla lettera. Era tutta una scorciatoia, tutto un manipolare le giurie, un improvvisare su due piedi, un buggerare questo e quello, un farla franca”. E le chiacchiere con il barista e con Thelma, le birre che si rincorrono, gli scambi delle opinioni, dei ricordi.

L’incontro con Valerie Bjorn, la nascita di una simpatia, di un legame affettuoso fatto di gesti e poche parole, di ricordi, di emozioni, di musica, di idee condivise. Il bello della vita sono le piccole cose, i particolari, il caffè, il giornale, il pane appena sfornato, il vento sulla pelle. E poi la campagna, i suoi rumori, i suoi animali, le rane, le cavallette, le civette, i ragni, il falco che sembra ghermire un piccolo opossum, una gru che plana sull’acqua. Quasi in secondo piano il giallo, la ricerca e la scoperta del colpevole. E infine il silenzio. Soprattutto il silenzio. Che parla più di mille parole.