Nel 1931, celebrando davanti alla Reale Accademia la figura di Giovanni Verga, Luigi Pirandello individuava due categorie di scrittori: quelli “di parole” (come D’Annunzio) e quelli di “cose” (come Verga ed egli stesso). Veniva tracciato così segnato il punto di inizio di una linea, cui avrebbero aderito, ognuno con la sua specificità, autori come Vitaliano Brancati e Leonardo Sciascia, quindi, Gesualdo Bufalino, Vincenzo Consolo, Giuseppe Bonaviri e Silvana Grasso; una linea genealogica, che non ha mai disdegnato di tralasciare qualsiasi velleità formale per far parlare direttamente la gente di Sicilia, con la sua ingenuità, il suo cinismo, la violenza verbale e fisica, tribale e gerarchica, negli estremi della avidità e della generosità.

E su questa scia non potevano che collocarsi autori come Alajmo, Cammarone, Di Stefano, Riotta, Savatteri, solo per citarne alcuni, che, grazie anche alla originaria e principale attività giornalistica, sono portatori di un progetto narrativo volto a far dialogare, per così dire, la tradizione isolana con una serie di modelli di marca anglosassone; in altre parole, volto alla stesura di romanzi assolutamente siciliani per ambientazione, amor loci, situazioni trattate, ma dal respiro internazionale, in cui grande attenzione viene prestata alle dinamiche dell’intreccio, alle psicologie dei personaggi e, fatto essenziale, all’utilizzo di lemmi desunti dal parlato per innervare un linguaggio, che la tradizione isolana ha sempre voluto declinato verso la letterarietà.

In questo contesto va senza dubbio annoverato, Giuseppe Sottile, giornalista di lungo corso (è l’attuale curatore del supplemento culturale del sabato del Foglio di Giuliano Ferrara), che ha da poco dato alle stampe per i tipi di Einaudi Stile libero, un breve romanzo, Nostra Signora della Necessità. È il racconto autobiografico dei suoi primi anni da “biondino” (così nei giornali venivano chiamati i principianti) nella piccola ‘grande’ redazione dell’Ora di Vincenzo Nisticò, quotidiano di Palermo legato al PCI, per il quale finì con l’essere un peso dapprima solo economico, poi anche politico per le posizioni, non sempre fedeli alla linea del partito, del direttore e della sua esigua, ma agguerrita, schiera di giornalisti.

Ci troviamo alla fine degli anni Sessanta, in una Palermo, dove la mafia ha compiuto un enorme salto di qualità, prima grazie all’incessante attività edilizia, poi in seguito al dilagare del mercato della droga. Una mafia, divenuta più ricca e potente e, al tempo stesso, più feroce. Quello che viene descritto dal giovane cronista, sempre accompagnato dal suo amico fotografo Gigi Labbruzzo, è un “teatro delle evanescenze in cui troviamo tutto e il contrario di tutto”, di cui è simbolo la chiesa di Nostra Signora della Necessità, che, oltre ad avere un ruolo nella vicenda, è assunta nel libro come metafora di un certo fatalismo siciliano. Ma la storia di quegli anni, dal Comune di Salvo Lima e Vito Ciancimino al sequestro di Mauro De Mauro, firma di punta dell’Ora, costituisce soltanto lo sfondo del racconto di Sottile, che offre al lettore, senza alcuna caduta autoapologetica, un romanzo di formazione; la storia dell’educazione di un giovane alla vita, prima ancora che alla professione e al rispetto per le sue regole e le sue ragioni, della sua voglia di capire, di illuminare gli aspetti più oscuri delle vicende della propria città, dell’intreccio perverso tra mafia e politica, anche con metodi poco rispettosi nei confronti della privacy, si direbbe oggi, di questo o quel personaggio.

Seguendo il modello del reportage narrativo alla Truman Capote, con un occhio anche a un certo cinema americano (le atmosfere che si respirano nel romanzo ricordano un po’ quelle di Prima pagina di Wilder, ma anche il recente Good night and good luck di Clooney), Sottile fa ricorso a una narrazione veloce e serrata, smussando l’estrema durezza dei fatti raccontati con una serie di battute, intercalari e soprannomi dialettali (“Vabbe’ che sei un viddanu, ma almeno lo sai che cosa è il proletariato o no? Vuoi fare il giornalista o il perecottaro? Sei uno con le palle o un piscialletto?”; “mi guadagno il pane facendo lo spicciafaccende”; “chi si guardìa si salvò”; “u’immuiruteddu”, “u’dutturiddu”, “u’pullu”), che offrono improvvise accensioni ironiche a una scrittura secca e precisa, dotata della grande e rara capacità di cogliere particolari significativi.