Alfredo Colitto, scrittore già affermato e con una lunga carriera di traduttore (Joe R. Lansdale, Cody McFadyen, Hillary Clinton), approda al romanzo storico - dopo già essersi cimentato nel racconto storico per l’antologia History & Mistery - con questo giallo trecentesco ambientato in una città intensa di odori e intrighi, dove tra vicoli bui e taverne, torri e locande, consumano la propria vita frati, pellegrini, usurai, inquisitori, vecchie corrotte e tutto il teatrino del popolo magro e crasso, mentre cavalieri templari ordiscono i fili degli arcani.

Mondino de’ Liuzzi, il protagonista principale, è un uomo votato alla medicina, un Magister che la insegna e la pratica in un periodo storico, il 1311, in cui questa, più che scienza, è ancora un miraggio di scienza, una disciplina imbevuta di alchimia, tentativi maldestri, credenze popolari. Ma Mondino è esponente di quella categoria prescientifica di studiosi attenti, scrupolosi e inclini al rinnovamento. Quando scopre che all’interno di un cadavere portato nel suo Studium vi è un cuore di ferro, il mistero si mette in moto. É quello che dà il titolo al libro, la mutazione del cuore in ferro, fusione perfetta del metallo con vene e condotti  arteriosi, processo magico-alchemico di cui solo pochi eletti conoscono il segreto.

Vicende avvincenti si susseguono senza sosta mentre, in primo piano, l’autunno del medioevo è descritto con precisione anche nei dettagli e così scopriamo, ad esempio, che una veste azzurra lunga appena sotto il ginocchio era un abbigliamento maschile considerato molto chic o che il rituale di laurea di allora è ancora molto simile a quello odierno. O anche che alle feste si mangiava in due dallo stesso piatto, i gusci delle noci si rompevano con lastre di marmo incavato, le vie erano impregnate di profumi e lezzi che passanti e cittadini producevano: rifiuti per terra, carogne di animali, ma anche fragranze di cibi. Il senso dell’olfatto era coinvolto, ovunque e comunque.

Ma l’acribia storica non è stato il fine, bensì il mezzo, come l’autore stesso ha precisato: «Il mio scopo non è ricostruire la Bologna del ‘300. Quello è l’ambiente dove si svolge la mia storia, e la ricerca serve a renderlo il più “vivo” possibile. Il mio scopo principale è scrivere una fiction tesa, intrigante e piena di colpi di scena. Non reale, ma credibile. E con Cuore di ferro spero di esserci riuscito.»

Il viaggio del lettore non si esaurisce solo nel tempo, ma si completa nello spazio. Da Bologna, fulcro propulsivo del giallo, l’azione lambisce la terra intera allora conosciuta. E sono contrade spagnole, francesi, germaniche, coi nomi possenti delle loro città, fino alla Terrasanta, quelle che appaiono e scompaiono, solo citate, tra i capitoli.

La conoscenza assurge a conoscenza pura, quasi perfetta perché multipla. Non la conoscenza ma le conoscenze. Religione, sapienza antica, alchimia, magia, paganesimo, lingua latina, volgare e araba si completano in forme simmetriche o complementari, mentre Mondino, integerrimo, mantiene il suo anelito scientifico: «L’alchimista non è un mago, come crede il volgo [...] Non basta accendere un fuoco, recitare alcune parole magiche e schioccare le dita, per ottenere un risultato del genere.»

E quando gli vien chiesto come altrimenti si possa spiegare il mistero del cuore di ferro, il Magister risponde: «Non so spiegarlo. So soltanto come non può essere accaduto.»