Sabbia, tanta sabbia. Quasi te la senti nel palato, mentre leggi Cielo di sabbia. Ed è polvere che stende:

«Già quel vento bastava a gettare a terra un uomo adulto, ma niente era peggio della polvere. Quando era rossa capivo che arrivava dall'Oklahoma, dove stavamo anche noi. Ma se era bianca significava che un pezzo di Texas ci stava cadendo sulla testa, e se le folate erano più scure giungevano con buona probabilità dal Kansas o dal Nebraska».

L’ambientazione texana, marchio di Lansdale, non tradisce nemmeno questa volta. È una terra devastata dalla sabbia, quella ocra del romanzo. Sabbia che acceca, sporca, costringe a brancolare nel buio, appesta bocca e occhi, scandisce i capitoli. A partire dal primo, in cui la sabbia, appunto, viene presentata come involontaria assassina dei genitori del protagonista, voce narrante: prima gli era morta la madre, per via di un’ostruzione polmonare causata dalla sabbia respirata e, in conseguenza di ciò, il padre si era impiccato. Per uno come Jack Catcher, che vuole vivere come i supereroi, il suicidio è una scorciatoia vigliacca, sono altri i progetti per la sua vita, più grandi. Forse non proprio quelli che si prospettano quando piombano sul suo orizzonte due fratelli: Jane e Tony Lewis, apparsi dalla tempesta di sabbia come due fantasmi che annaspano:

«E poi li vidi arrancare nella sabbia.

Lei indossava stivali, una salopette e una camicia a quadri col colletto e i polsini abbottonati per tenere lontana la polvere. Il ragazzo che l’accompagnava era più giovane. Anche lui era in tuta da lavoro, aveva una vecchia camicia marrone e uno straccio che gli nascondeva il capo, lasciando spuntare soltanto gli occhi. Trasportavano sacchi da farina pieni di chissà cosa.

Tutti e due venivano avanti pian piano, e si capiva che non avevano quasi più forza e stavano per cadere, così scesi per andargli incontro».

Comincia così un’avventura – sempre polverosa – che vede i tre lanciati in una meta nemmeno a loro molto chiara, orfani del mondo, in fuga dalla rabbia di una natura ostile. Tre bei personaggi che partono alla volta del nulla e incontrano altri reietti, in un memorabile cammino dove, quando ai deserti vengono alternati paesaggi più umanizzati, è solo nelle atmosfere oniriche del ricordo:

«Non era facile ricordarsi i tempi in cui i boschi erano belli folti e i campi pieni di granturco e di fagiolini e di noccioline e di patate ancora da cavare, con le loro piante che crescevano altissime come a volerti dire che bastava scavare là sotto per trovare dei tuberi belli grandi e pronti per essere lavati tagliati e messi a friggere in padella».

Con una bella scrittura chiara, non pretestuosa, dialoghi ritmati da stralci di vita, brevi pennellate descrittive, Lansdale conferma che ciò che ha dichiarato in un’intervista, la sua attitudine ad osservare la gente, gli è valsa ancora una volta a dipingere un affresco indimenticabile: «Sono un osservatore delle persone, di come parlano, di come si muovono e direi che tutto questo serve a dare spessore ai miei personaggi».