Sorprendente ed appassionante esordio nel romanzo lungo di un’autrice specializzata in narrativa breve e saggistica, Tutto quel nero afferra il lettore sin dalle prime parole e lo fa scivolare nel delirio nero che vive la protagonista.

Cristiana Astori ha il merito inoltre di donare alla letteratura - non solo di genere - un nuovo e fenomenale personaggio che finora era apprezzato solo da una ristretta cerchia di intenditori: Soledad Miranda.

 

Soledad era un’attrice rivelazione del cinema spagnolo di genere negli anni Sessanta, e sin dal decennio successivo la sua vita ha assunto valenze misteriche e nebulose. Oggi Susanna - ragazza che vive il disagio dell’odierna società italiana, cioè la precarietà e la mancanza di fiducia nel futuro - riceve un incarico “strano” da una società altrettanto “strana”: deve ritrovare una rara e semisconosciuta pellicola che corrisponde al materiale girato per un vecchio documentario portoghese. C’è Soledad in quel film, e la pellicola negli anni si è conquistata l’aggettivo di “maledetta”: quale mai ne sarà la causa?

Susanna scopre ben presto un mondo sotterraneo ed inquietante che ignorava, fatto di appassionati-ossessionati di cimeli filmici e da cacciatori di pellicole con parecchio pelo sullo stomaco; ex dive dal comportamento bizzarro e collezionisti davvero poco raccomandabili. In un viaggio nel nero più nero - come quello d’una sala cinematografica o come quello d’un fotogramma di pellicola vuoto - Susanna vive un viaggio tanto infernale quanto oscuro, in cui l’unica luce guida paradossalmente è quella della più inquietante delle entità: Soledad.

 

Tutto quel nero è un romanzo che sfugge ad ogni catalogazione, in quanto abbraccia diversi generi letterari senza sposarne nessuno. È una luce che racconta il buio, quindi non può avere altra etichetta se non questa: buona letteratura.

È un romanzo unico in quanto la fenomenale ricerca storica che ne è alla base può fare riferimento a scoperte incredibili non ancora a conoscenza del grande pubblico, il quale non può far altro che rimanere in balìa della Astori e lasciarsi guidare dal suo stile che solo all’apparenza è scorrevole, ma che in realtà penetra sotto la pelle e paralizza il lettore. Malgrado il romanzo si “beva” d’un sol fiato, ogni parola ha una propria caratura ed è studiata per l’effetto finale, quando i nodi vengono al pettine e tutte le trappole con cui l’autrice ha disseminato il testo scattano e imprigionano il lettore, che all’improvviso si ritrova invischiato... in tutto quel nero!

 

Ci sono romanzi che raccontano la realtà ed altri che l’inventano: il libro della Astori la crea. Crea un’iconologia legata al mondo in cui Soledad Miranda visse e in cui lasciò perennemente la sua impronta; raccontando l’aura di mistero che avvolge la donna in realtà crea il suo mito e stuzzica - con mano sapiente - la curiosità del lettore, che alla fine è più che convinto che quanto ha letto sia tutto vero. Per quanto l’autrice specifichi nella nota finale quanto sia reale e quanto romanzato, il lettore non può fare a meno di ignorarla e di credere... sentire che quanto raccontato è la realtà.

Fotogrammi misteriosi, donne che negano il loro viso ad una telecamera invadente ed inopportuna, pellicole maledette che donano morte invece di sogni, il vento che scompiglia i capelli di Soledad sulla strada dell’Estoril e il suo vestito che si agita e copre il sole ad intervalli di 24 fotogrammi al secondo. Tutto quel nero è un romanzo di sensazioni, di emozioni, ma anche di richiami visivi, di fotogrammi impressi nella mente che l’autrice ricompone per il proprio personale film.

E per ultimo - ma non da meno - è un romanzo di deliziose citazioni nascoste, di quegli omaggi mascherati che ogni lettore-spettatore ama riconoscere e cercare.

Rimane solo un enigma, in tutta questa storia: quanto tempo dovremo attendere il prossimo romanzo di Cristiana Astori?