Ho conosciuto Sergio “Alan. D.” Altieri nel 1989 quando lui era già un celebrato autore di thriller apocalittici (Città oscura è del 1981) e io un esordiente pieno di entusiasmo. Militavamo insieme in una collana che proponeva  noir urbani ma entrambi ci sentivamo stretti da quell’etichetta. Ripeto, io non ero nessuno, lui, l’Imponente Protagonista. Eppure mi chiamò a casa per dirmi che aveva letto il mio libro e che gli era piaciuto. Da quell’epoca abbiamo entrambi pubblicato molti libri e perso tantissimi capelli ma siamo anche riusciti a stringere un sodalizio professionale e personale che ci ha sovente portato a confrontare idee e progetti.  L’uscita oggi per i tipi della Corbaccio di L’Eretico, primo volume della trilogia sulla guerra dei Trent’anni intitolata Magdeburg è per me motivo di particolare soddisfazione. Di questo progetto Sergio mi ha parlato per anni, la realizzazione è forse paragonabile al lavoro di Peter Jackson con il Signore degli  Anelli, solo che Sergio, uomo di cinema e di narrativa ha fatto tutto da solo, ricostruendo in maniera originalissima e personale un periodo storico in cui affonda la nostra vicenda politica europea attuale, dando vita e furore a personaggi indimenticabili e fungendo lui stesso da maestro d’armi, scenografo, sceneggiatore, operatore. Insomma un lavoro epocale che a mio parere si allontana solo apparentemente dalle sue opere precedenti. Semmai c’è una marcia in più, una ricerca stilistica più accurata ma il nerbo della storia, tutti quegli elementi che hanno conquistato i lettori in Ultima luce o Kondor sono qui, abbinati ad altri, nuovi e appassionanti, fino a formare un grande affresco storico.

Mi sembra giusto quindi, entrare in quello che scherzosamente definiamo la caverna dello scrittore, antro dotato di moderni strumenti tecnologici ma popolato di sogni antichi ed evocativi di emozioni che si legano al cinema e alla grande narrativa d’intrattenimento e rivolgere alcune domande proprio a lui Sergio, Alan D. Altieri, Il Cavaliere Nero nella narrativa italiana. 

Puoi raccontarci brevemente quale e se c'è stata un'evoluzione tra Solomon Newton (eroe di Città Oscura), David Stark (Ultima Luce), Russell Kane (La serie di spionaggio Sniper) e il Viandante in  Nero e cosa significa per te come autore.

In forme diverse, luoghi diversi, epoche diverse il mio protagonista rimane sostanzialmente il medesimo: l’uomo solo schierato contro un potere immane e – per realtà intrinseca del potere stesso – maligno. Ciascuno dei miei protagonisti è un guerriero tormentato da almeno due demoni fin troppo in contraddizione uno con l’altro: emarginazione dal mondo esterno, conflitto di coscienza dall’interno. Solomon Newton, nero, protagonista di Città Oscura deve vedersela con il gap razziale. Alan Wolf, suo successore in Città di Ombre  è eroso dentro dallo scontro mai risolto con il proprio padre. Entrambi sono costretti a fare i conti con gli spettri della Guerra del Vietnam. David Stark – soldato delle Special Forces in Kondor, poliziotto del futuro in Ultima Luce  – è ossessionato dalla morte del fratello e dall’onnipotente gigantismo ultra-globalizzato della famigerata Gottschalk-Yutani, Corp. Russell Kane – l’infallibile “sniper” dello Special Air Service britannico – non riesce a liberarsi dal proprio “death wish” (desiderio di morte) e dalle strumentalizzazioni di una politica corrotta peggio di una discarica di rifiuti altamente tossici. Il che ci porta all’enigmatico Viandante in Nero di Magdeburg/L’Eretico. Per questo guerriero del passato – a tutti gli effetti precursore di tutti i miei guerrieri del futuro - il dilemma è in realtà multiforme. Costantemente in bilico tra furia e compassione, orrore e rimorso, strage ed eresia, il Viandante in Nero è possibilmente la figura più tormentata che abbia mai tratteggiato nel mio lavoro di narratore. Nelle quasi quattrocento pagine di Magdeburg/L’Eretico, il Viandante in Nero (l’Eretico appunto del titolo) non pronuncia più di un centinaio di parole. La sfida è stata trasmettere questo tormento attraverso il sintetismo estremo. Chiunque siano i miei guerrieri, su qualsiasi campo di battaglia combattano, devo e voglio riconoscere che l’autore dal quale sono stato maggiormente influenzato è Raymond Chandler, il grandioso maestro dell’hard-boiled. Philip Marlowe - cinico eppure consapevole, disilluso eppure etico, duro eppure romantico - rimane per me “il guerriero più  puro.”  

Ritieni corretto accostare questo romanzo apocalittico con L'Occhio Sotterraneo  che, in altra epoca e in altra forma, parlava di uno sconvolgimento totale del mondo al pari di Magdeburg?

Ottima domanda, inevitabile accostamento. Sono molti gli elementi in comune a L’Occhio Sotterraneoe alla Trilogia di Magdeburg. Entrambi hanno luogo in una Germania devastata da guerra e pestilenza, entrambi sono imperniati su un conflitto fanatico, entrambi possono essere definiti come “libri apocalittici”. Dove le strade narrative si dividono è nella concezione dei due libri.  L’Occhio Sotterraneo  rimane un lavoro a sé stante nella mia produzione, senza riferimenti ai miei altri libri. Chi conosce il mio lavoro, scoprirà come la Trilogia di Magdeburg  sia la genesi (oscura) di tutto quello che è venuto “dopo.”  

Nel tuo lavoro di narratore sei conosciuto come uno specialista del thriller – metropolitano, techno o futuristico che dir si voglia – a dura azione di combattimento. La Trilogia di Magdeburg ha luogo niente meno che nella Germania del ‘600, alla cuspide della Guerra dei Trent’anni. Perché questo inatteso cambiamento di rotta?

Si tratta di un cambiamento di rotta soltanto parziale. Da un lato c’è la sfida narrativa nell’affrontare tempi, luoghi e temi per me inesplorati. Dall’altro lato c’è lo sforzo di applicare a tutto questo proprio gli apparati narrativi del genere che hai menzionato, anche se tendo a evitare etichette di genere in senso lato.

Nella mia prospettiva, la Trilogia di Magdeburg rimane comunque un “combat thriller”, per quanto di collocazione e ambientazione inedite per me e, mi auguro, anche per i lettori.

Nella Trilogia di Magdeburg le componenti che prediligo ci sono tutte: la ferocia della natura umana, il lato oscuro, le terre desolate, la psicosi del fanatismo, l’intrigo a struttura “frattale”... ingranaggi dentro altri ingranaggi. Come ho detto, una grossa sfida. 

Da quanto tempo stai pensando questo progetto e quali elementi – se esistono – ti hanno influenzato?

La mia primissima nozione dell’evento chiamato Guerra dei Trent’anni, (1618-1648) risale ai miei anni di liceo scientifico: “... Nella prima metà del Secolo XVII, venne combattuta in Europa una sanguinosa guerra della durata di ben tre decenni che arrecò alle popolazioni gravi lutti...” è  con poche, scarne righe troppo simili a queste che il testo incriminato descriveva quello che fu il più terribile conflitto europeo fino alla Prima guerra mondiale. Da adolescente, mi posi una domanda iniziale: “Come è possibile che una guerra duri trent’anni?” Non avevo ancora il concetto di “guerra generazionale”, vale a dire un conflitto in cui il testimone dello scontro (quale che sia l’oggetto dello scontro) viene passato da una generazione a quella successiva. La Guerra dei Trent’anni vide intere etnie, intere culture, in tutti i paesi d’Europa, che non conobbero altro se non la guerra stessa. Per la mentalità di oggi è qualcosa che sfiora l’impensabile. Eppure perfino oggi, era della mega-tecnologia, abbiamo svariati esempi di “guerre generazionali”: Il conflitto tra israeliani e palestinesi (iniziato nel 1948), quello afgano (tuttora aperto a dispetto delle favolette che ci raccontano i media), quelli nell’Africa sub-sahariana. Tornando alla Guerra dei Trent’anni, quanto immane fu l’episodio, quanto gigantesche furono le sue conseguenze, rimane relegata in una strana nicchia di oscurità. È  solo con il romanticismo europeo, due secoli dopo, che la Guerra dei Trent’anni, cacciata fuori dalla porta, rientra di prepotenza dalla finestra: I Promessi Sposi del Manzoni sono un episodio a margine della Guerra dei Trent’anni, lo stesso vale sia per I Tre Moschettieri che per Vent’anni Dopo di Alexander Dumas. Per quanto ne so, è stato realizzato unico film con quell’ambientazione: L’Ultima Valle (The Last Valley), scritto, prodotto e diretto da James Clavell, il tutt’altro che dimenticato autore di King Rat (Il Re),  Shogun e La Nobil Casa. Con un cast per quell’epoca (metà degli Anni ’70) di tutto rispetto - Michael Caine, Omar Sharif, Florinda Bolkan -  L’Ultima Valle rimane un film di grandioso potere evocativo. E forse è stato proprio L’Ultima Valle  a mettermi in testa il tarlo che ha continuato a scavare per tutto questo tempo.

Fino a sfociare - non dico trent’anni dopo ma quasi - nella Trilogia di Magdeburg

Narrare di un periodo storico di questa complessità richiede notevoli ricerche. Vuoi parlarne?

Nello sforzo di fare bene i miei “compitini a casa”, le ricerche che ho compiuto - e continuo a compiere - su  Magdeburg  durano da anni e sono destinate a continuare. E’ un cantiere storico che non chiude mai. Gli archivi e la documentazione sono colossali, ma il loro compendio è un problema altrettanto colossale. Perfino oggi, tre secoli e mezzo dopo, gli storiografi hanno lacune, problemi, ambiguità. In Italia sono disponibili tre ottimi volumi, tutti e tre con lo stesso titolo: La Guerra dei Trent’anni di Catherine W. Wedgewood (Dall’Oglio Editore ristampata negli Oscar Mondadori) è IL testo per eccellenza sul conflitto. Uno straordinario saggio che si legge come un romanzo e che descrive con cartesiana precisione il chi, il come e il perché. La Guerra dei Trent’anni di Geoffrey Parker, oltre alla chiarezza espositiva e alle analisi politiche, ha il vasto pregio di offrire mappe e genealogie. La Guerra dei Trent’anni di Jozef Polisenki (Feltrinelli) studia con singolare chiarezza gli effetti della guerra sull’economia della nazioni colpite. È stato soprattutto a queste tre fonti che ho attinto a piene mani. C’è inoltre la grande fonte dell’era tecnologica: Internet, i cui archivi continuano a rivelarsi cruciali. Dal punto di vista della “fiction”, in Italia è disponibile un solo romanzo che parli della Guerra dei Trent’anni: L’Avventuroso Simplicissimus, anche questo  pubblicato negli Oscar Mondadori,  uno straordinario classico scritto da Hans von Grimmelhausen attorno al 1665, quindi circa vent’anni dopo la fine del conflitto. Albrecht von Wallenstein è una di quelle figure controverse su cui è stato scritto un numero di biografie paragonabile a quelle disponibili su Giulio Cesare, ma poche sono pubblicate in Italia. A parlarci di Wallenstein in forma romanzata è niente meno che il grande Friedrich Schiller, con la sua Trilogia di Wallenstein, base dell’opera lirica con lo stesso titolo. Magdeburg  non è specificamente su Wallenstein, ma Wallenstein è un personaggio chiave e il lavoro di Schiller mi ha fornito prospettive fondamentali. Per quanto riguarda il cinema, ho già parlato de L’Ultima Valle. Sul fronte del teatro, nella Guerra dei Trent’anni è ambientato uno dei più grandi capolavori di Berthold Brecht: Madre Coraggio e i Suoi Figli, impietoso apologo di sopravvivenza e disperazione. Queste le mie fonti primarie. 

In quale modo la diversità dell’ambientazione e la dimensione dell’opera hanno influenzato la tua metodologia di scrittura?

La Turingia del 1630 - epoca in cui hanno luogo gli eventi che narro in  Magdeburg  - è un luogo ben diverso dalla Los Angeles dei miei thriller metropolitani. Pur cercando di conservare il mio stile diciamo “sincopato”, inevitabilmente ho dovuto lavorare sia sulla tecnica di esposizione che sulle modalità narrative. Ho anche dovuto pensare in termini non di un unico libro ma di trilogia, il che ha spostato la distribuzione delle informazioni, punti nodali narrativi e la costruzione dei conflitti tra i personaggi. Sotto il profilo dell'esecuzione del testo vero e proprio, l’elemento che differenzia Magdeburg dai miei lavori precedenti è una scrittura non-sequenziale ma per “blocchi narrativi”. La complessità dell’intrigo, gli spostamenti geografici, il retroterra storico e il numero dei personaggi mi hanno imposto di procedere affrontando ogni vettore narrativo separatamente. In sostanza, prendo un personaggio e scrivo tutti i capitoli che lo coinvolgono fino a uno dei punti nodali di cui ho appena parlato. E’ un metodo simile a quello con cui si gira e quindi si monta un film. Da narratore, Magdeburg  rimane, come ho detto, la sfida più consistente che io abbia affrontato. Spero che sia così - in positivo - anche per il lettore. 

Da narratore  a narratore, queste  sono le interviste che amo di più realizzare.

Parole schiette, informazioni che, nella loro semplicità, possono essere di stimolo per il lettore ma anche d’aiuto per lo scrittore, aspirante o meno. E mi sembra giusto concludere con poche frasi, prese dall’incipit di l’Eretico nelle quali c’è tutto il sunto del romanzo e del lavoro di Sergio: Emerse dalle tenebre. Memento e incubo. Un uomo in un mantello colore delle ombre, su un cavallo da guerra colore dell'acciaio. Un viandante. Nient'altro che un viandante in nero. Avanzò lungo la strada flagellata dalla pioggia del Giorno dei Morti. Superò i relitti di case sventrate, invase da erbacce sibi­lanti nel vento. L'aria era opaca, miasmatica. Vapori lividi si levavano dal lastrico di pietre, disperdendosi contro nubi simili ad antracite liquefatta. Nessuna luce arrivava sulla terra. Forse la luce aveva semplicemente cessato di esistere. Wolfengrad, Turingia. La guerra era passata quattro estati prima. E poi di nuovo l'inverno prima. Troppi eserciti diversi, troppi condottieri diversi. ­Un unico desiderio: macellarsi gli uni con gli altri. E macellare il resto, tutto il resto. Strutture, raccolti, animali, uomini. Alla fine, la guerra se n'era andata. Solo un interludio nella demoli­zione. In un modo o nell'altro, in un tempo o nell'altro, la guerra sarebbe tornata. La guerra era eterna.