E allora vediamo, finalmente di scoprire il perché.

Fondamentalmente dopo dodici anni di missioni spericolate in ogni angolo del mondo e un’avventura drammatica come L’inferno dei vivi era necessario un cambiamento.

Un eroe seriale corre il rischio di diventare una fotocopia di se stesso se il suo autore non gli impone dei cambiamenti. Per quanto ben caratterizzato finisce per diventare un manichino, un uomo cui si possono affidare dieci, cento, mille missioni che, con qualche variazione, si ripetono. Certo, le pallottole fischiano sempre micidiali, le ragazze sono sempre più seducenti, gli intrighi più attuali ma Chance rischierebbe di poter essere sostituito da qualsiasi altro eroe del filone e nulla cambierebbe.

Anche i comprimari, che sono una parte così importante della caratterizzazione, diventano un rischio. Possono trasformarsi in macchiette o in  pupazzi buoni per risolvere situazioni irreparabili con interventi che alla fine risultano telefonati.

Tutto l’impianto della serie è stato creato per generare affezione, fidelizzazione del lettore. Ma lo stimolo per chi scrive dove lo mettete?

Questo è un aspetto importante. Chance Renard, negli anni, ha sviluppato una psicologia particolare, spesso s’è confuso con il suo autore, è invecchiato con lui. Spesso s’arrabatta proprio per non darlo a vedere. Battaglia persa, ma che genera sempre simpatia.

Alla fine Chance Renard è una persona. O almeno io la considero tale.

Per mantenerlo in vita ed evitargli il destino del manichino che si segue per abitudine, era necessario apportare cambiamenti. Graduali, ma pur sempre cambiamenti.

L’inferno dei vivi fa da spartiacque come già altre avventure hanno creato dei minicili nella saga. Ma questa volta sentivo la necessità di un intervento più radicale.

Intendiamoci, non ricominciamo tutto da zero. Molti dei personaggi che hanno accompagnato Chance nella sua carriera torneranno, anche se con minore frequenza. Come potrebbero sparire Fang, Gregor, Barontini e persino Mimy che è ritornata in scena dopo un lunghissimo periodo, stimolata da un racconto di Fabio Novel pubblicato nella raccolta Professional Gun?

Se pensate di non rivedere mai più Svetlana solo perché si è ritirata a scrivere favole in Norvegia non avete capito nulla di Chance e del suo autore.

Sentivo però la necessità di una svolta, di aria nuova e, visto che Chance è stato in azione praticamente in ogni angolo del mondo, perché non rientrare in Italia?

E qui arriviamo al secondo punto.

Il romanzo che state per leggere non è nato nella forma definitiva che  uscirà su Segretissimo. I semi del cambiamento hanno iniziato a germogliare ancor prima della stesura di L’inferno dei Vivi, episodio che era stato programmato da tempo per concludere la trilogia iniziata con Corsa nel fuoco e proseguita con Dossier Yaponchik.

È stato nell’inverno del 2005 che l’idea di un’avventura ambientata tutta a Milano di Chance si è imposta alla mia immaginazione. Un’ispirazione scaturita, devo ammetterlo, da una certa rabbia.

Di “nero italiano” si parla da anni, tutti gli editori ne pubblicano e sembrava che io schifassi le ambientazioni nostrane in virtù di chissà quale esterofilia.

Tutte balle. Ma questa fu l’impressione che ricavai consultando un volume di una prestigiosa collana  che raccoglie fatti di cronaca su varie città italiane, sottolineandole il lato criminale. Nel volume dedicato a Milano c’erano però due capitoli dedicati al cinema e alla narrativa dove non solo gli autori manifestavano una spiccata predilezione su quel genere di nero italiano che detesto, provinciale nell’animo e adagiato su figure a me lontane, ma disprezzavano l’opera cinematografica di uno dei miei registi preferiti, Fernando Di Leo. Fino a qui avrei potuto anche starci. Ma non c’era neppure una menzione a una gloriosa collana, Nero italiano, alla quale partecipai all’inizio degli anni 90.

Non ero solo e non ho la pretesa che il romanzo e il racconto che pubblicai nella collana fossero pietre miliari del filone. Ma una menzione, tutta l’operazione - forse prematura ma comunque coraggiosa - la meritavamo. Non solo io ma anche altri colleghi, come Sergio Altieri, che avevano cercato di riportare sulla pagina una Milano criminale… differente.

Con l’arroganza del piccolo criminale che se la prende perché il giornale non cita il suo scippo, m’infervorai.

In verità, anche se ho scritto la maggior parte dei miei romanzi con uno pseudonimo e le mie storie hanno ambientazioni europee, nelle vie di Milano a raccontarne il “romanzo criminale” c’ero già stato.

Al di fuori di Per il sangue versato e La seconda vita pubblicati in Nero Italiano, la mia Milano  nera aveva già preso una sua forma ben definita, lugubre, violenta. Fotografie della stessa metropoli sulla via di una globalizzazione che cancellava vecchi clichè della mala classica - quella delle canzoni, dei lader della banda dell’Ortica, degli anni 60 - per approdare a un nucleo cosmopolita dove interessi criminali, disagio ambientale, incontrollata integrazione di gruppi extra comunitari creavano una nuova, violenta frontiera. Era la Milano di Sopravvivere alla Notte, un Segretissimo del 1992 che partiva dall’Italia e si sviluppava in Africa. Era un romanzo sulla fine del terrorismo degli anni 70-80 ma già s’intravedevano spicchi di quella Milano che vedevo intorno a me e di cui leggevo sui giornali. Le agenzie di escort, il giro dei pedofili che progettavano turpitudini al bar dietro la stazione, uno scontro a fuoco nei diurni di piazza Oberdan che di lì a poco sarebbero stati chiusi e rimpiazzati da una sala giochi. Scomparsa anche quella. E così, poco dopo scrissi un racconto Rilessi nel buio su un cacciatore di serial killer nei quartieri più difficili di Milano. E ancora In fondo al fiume nero, racconto pubblicato per Garden che ho rivisto da poco e gravita tra ciò che resta delle varesine e la stazione Centrale.

Infine c’è uno dei romanzi cui sono più affezionato, L’ombra del corvo, ideale secondo capitolo di una saga iniziata con Pista Cieca (che aveva un breve episodio ambientato a Genova, proseguita con Ora Zero e che vedrà un nuovo viaggio a Milano del protagonista in Sole di Fuoco.)

È sempre la stessa Milano, con vie e locali riconoscibili, strade e parchi abbandonati, gioco d’azzardo, combattimenti di cani e una galleria di personaggi che mi auguro inusuale per il panorama del thriller italiano.

Lo stesso Chance non è nuovo a puntate in Italia, sin dal suo esordio Commando ombra. A Ventimiglia c’è la villa del Marsigliese. In Corsican Option e in Fuoco sulla Pelle Chance approda a Cortina e a Venezia. In Corsa nel fuoco si trova a Napoli. Nel racconto che leggerete nell’antologia Anime nere, I lupi muoiono in silenzio, Chance deve acciuffare un vecchio compagno d’armi tra Milano e Genova. L’Italia, infine, è sempre stato uno dei miei territori d’azione, come altre città in cui sono stato e ho amato. Hong Kong, Bangkok, Istanbul, Parigi, Praga…

Ma Gangland è la summa di tutte queste rapide puntate della mia narrativa nera in Italia.

Scrissi il romanzo di getto, in due settimane. Una storia fuori serie, tutta a Milano.

Inutile discutere adesso sulle vicissitudini  che hanno portato la mia aspirazione a dire la mia sul nuovo Nero italiano a prendere una strada differente... La storia era buona, reggeva e, alla fine, era giusto pubblicarla su Segretissimo. Non sarebbe stato possibile fare altrimenti.

Però prima di consegnare ho anche pensato a chi acquista il mensile di spionaggio Mondadori e vi ha sempre trovato avventure esotiche. Milano è diventata Gangland, i nomi delle strade sono cambiati. Una città che può rappresentare tutte le città italiane ma che è riconoscibilissima per chi la frequenta e la vive. Insieme a quel prologo così drammatico da dover essere raccontato in prima persona da Chance e all’assalto al portavalori sulla strada del Brennero, la vicenda non perdeva nulla del suo  tarantinesco vigore, ma anzi acquisiva una nuova potenza.

È forse uno dei romanzi che amo di più e non solo nella serie dedicata a  Chance. Non solo ne esce un quadro della Milano criminale di oggi, ma locali, persone, luoghi veri si fondono in una storia che certo è fiction, e richiede una sospensione dell’incredulità perché non è un pezzo giornalistico, ma regala emozioni.

Non sfuggirà a molti una serie di riferimenti obliqui al poliziottesco italiano anni 70. Non è per copiare e neppure per fare smaccati omaggi per lasciar intendere al lettore chissà quale cultura cinematografica. Di quel genere di storie mi piace pensare che ci sia solo lo spirito. Un po’ come Di Leo fece con i racconti di Scerbanenco dei quali colse il nocciolo che adattò al suo modo di fare cinema. Milano calibro 9 e La mala ordina sono film eccellenti proprio perché sono originali, opere di un autore che ha saputo interpretare una fonte d’ispirazione perché, anche nel genere, c’è sempre una sorgente di idee cui si attinge. Forse molte. E così è stato per Gangland.  Se   certi personaggi con il loro aspetto  fisico,  o magari il nome   richiamano una stagione gloriosa del cinema italiano, si intreccia con una storia che è tipicamente un’avventura del Professionista.

Non del tutto, però. Chance è un po’ cambiato ma non perché si trovi in Italia.

Sono passati gli anni e si ritrova a confrontarsi con un mondo diverso da quello che ha sempre conosciuto. Un mondo dove ci sono professionisti come lui ma anche velleitari, gente finita in mezzo per caso o per sbaglio. Donne che hanno un sapore “vero”, perché vengono dalla memoria del loro autore. Forse questa è la differenza più evidente.

Ovviamente ho giocato con il cast inserendo nomi e volti cinematografici- tra i quali una nota pornostar che ho conosciuto personalmente e che è alla fine il personaggio più simpatico della vicenda- ma anche gente reale.

Tutto trasfigurato dalla lente del narratore che rievoca persone e luoghi ma che, per pudore, qualcosa cambia sempre e, per superbia, molto piega alle sue esigenze narrative.

È nata così una vicenda claustrofobica, tutta chiusa all’interno di una città. Un meccanismo di precisione dal quale è impossibile scappare, una vendetta, un intrecciarsi di vite normali e criminali.

 Non un romanzo politico, ma una riflessione sulla città in cui sono cresciuto e che, a volte, fatico a riconoscere ma che è sempre la stessa, anche sotto la maschera.

Non sono Dashiell Hammett, lo ammetto. Ma mi piace guardare a   Gangland un po’ come il mio Red Harvest.

Io e Chance ce l’abbiamo messa tutta.

Anche per voi.

Speriamo, ancora una volta, di aver centrato il bersaglio.