Il Vellum è lo sconfinato reame dell’eternità, il libro in cui Dio ha scritto il mondo, tutti i mondi. Al suo interno la nostra realtà non è che un minuscolo scarabocchio, uno tra milioni.

Nel Vellum gli Unkin si stanno preparando alla guerra, un angelo caduto e un demone ribelle stanno per affrontarsi. La sanguinaria magia scaturita dall’inferno sta per scontrarsi con la nanotecnologia creata in paradiso. Il passato, il presente e il futuro collideranno con altri mondi e antichi miti. E l’intero Vellum brucerà.

Uno straordinario, infuocato capolavoro, una fantasiosa, intricata fiction dai molteplici personaggi che stravolge le tradizionali regole letterarie.

 

Cronache perdute dal mondo dei diavoli di Hal Duncan si presenta come un testo ricco, a tratti quasi maestoso nel suo incedere e impetuoso nel travalicare i limiti tradizionali dei generi e sottogeneri della narrativa. Vi si ritrovano ampie citazioni mitologiche, elementi cyberpunk e steampunk, i temi tradizionali della ricerca e delle simbologie cristiane, folklore nordeuropeo, il tutto shakerato con decisione e servito con ampio contorno di situazioni forti e qualche tocco sparso di ucronie. Se aggiungiamo che la struttura narrativa è ai limiti della sperimentazione è chiaro che questo libro non si presta a classificazioni tradizionali. In mancanza di meglio lo si può definire come fantasy.

Cosa non va.

Troppa carne al fuoco, grande voglia di stupire il lettore. Difficile non ricavare un’impressione di confusione e non sentire la mancanza della mano dura di un editor esperto. Con 50-60 pagine di meno e una struttura d’insieme migliore il libro sarebbe migliorato non poco. Ci sono alcuni passaggi in cui la somiglianza ad altri narratori, per esempio Clive Barker, si fa eccessiva.

Cosa va.

La voglia di cercare il nuovo e il sincretismo mitologico sono fattori di grande rilievo, così come va riconosciuta all’autore una grande forza espressiva. Apprezzo i libri ambiziosi e questo sicuramente entra nella categoria. La sottotraccia omosessuale presente nell’arco della narrazione, vero e proprio campo minato per scrittori con meno personalità, viene gestita con delicatezza. Apprezzabile anche il tentativo di trasporre figure mitologiche in vari contesti, anche se la resa è altalenante. Alcuni concetti che stanno alla base di questo testo sono molto interessanti e meriterebbero ulteriori approfondimenti.

 

Una parola va spesa per la traduzione, a cura di Stefania Di Natale, che deve aver conosciuto un iter di notevole difficoltà data la struttura del romanzo e la varietà del linguaggio. Ottimo lavoro!

Nota bene: la seconda parte (Ink: The Book of All Hours 2) non mi risulta essere stata pubblicata in Italia, il testo è del 2007.