Il rapporto tra produzioni televisive e censura è da sempre un argomento di attualità negli Stati Uniti, e il telefilm giallo non fa eccezione.

Gli stessi grandi network commerciali - NBC, CBS e ABC in testa - operano da sempre una sorta di "autocensura" che costituisce perenne motivo di diverbi e tensioni tra la parte creativa - autori, registi, interpreti - e la parte che potremmo definire amministrativa-dirigenziale, alla quale da sempre spetta l’ultima parola su cosa viene trasmesso e cosa no, e alle cui decisioni gli executive delle varie produzioni non hanno in genere altra scelta che quella di piegarsi.

Eh sì, perché nei "liberi" Stati Uniti la libertà ha dei confini ben precisi, che fra l’altro sono in genere diversi se non più rigidi che da noi, fino al punto di sembrare esagerati o persino ridicoli.

Del resto bisogna tenere presente che gli Stati Uniti sono anche il Paese delle associazioni di telespettatori o di genitori, delle PTA (Parents and Teachers Associations), capaci di insorgere se un telefilm trasmette una scena troppo spinta, troppo violenta o con espressioni troppo volgari, dimenticando che i loro figli si esprimono tutti i giorni in modo assai più turpe senza bisogno degli insegnamenti del piccolo schermo.

Ma partiamo dalle origini. Siamo nell’ormai lontano 1951: negli USA il telefilm giallo è appena nato, e Dragnet esordisce sugli schermi della NBC. Tutta l’azione in quella serie si limitava a qualche goffa scazzottata, che a rivederla oggi potrebbe al massimo fare ridere, ma che all’epoca fu sufficiente perché la serie fosse giudicata "violenta", provocando addirittura delle polemiche.

La stessa sorte tocco più o meno a tutte le produzioni di quel periodo, da M Squad a Naked City.

A proposito di Naked City, già che siamo in tema di censura, ricordiamo che quando la serie arrivò in Italia, a qualche anno di distanza, qualche dirigente RAI pensò bene di cambiarle il titolo, probabilmente giudicato troppo "osè", e così "La città nuda" venne trasformato in "Indirizzo permanente".

 

The Untouchables - prodotta tra il 1959 e il 1963 - è indubbiamente una delle serie di maggior successo della storia della televisione, e se Chicago nell’immaginario collettivo è ancora oggi "‘la città di Al Capone"’ è anche merito (o colpa...) di questa produzione.

Ma all’epoca della sua trasmissione, la serie fu bersaglio di un’ondata di critiche per la sua eccessiva violenza, ritenuta una delle cause del dilagare della criminalità nella vita reale. Fece scalpore il caso di una banda di ragazzi di Cleveland, che arrestati per un’accusa di omicidio dichiararono di essere "gli intoccabili"’. Come se non bastasse, un’indagine del Justice Departement rivelò che "‘The Untouchables" figurava tra le trasmissioni preferite dai giovani rinchiusi in riformatorio. Nonostante tutto questo, il pubblico sembrava gradire le sparatorie e i bagni di sangue che settimana dopo settimana si ripetevano nei vari episodi della serie.

Dopo l’assassinio di Martin Luther King, negli Stati Uniti precipitarono le ormai decennali polemiche sulle responsabilità della televisione nel dilagare della violenza. Un nutrito gruppo di operatori di Hollywood sottoscrisse una dichiarazione in cui venivano rifiutate le scene di violenza gratuita nelle serie televisive. Tutto questo putiferio si ritorse in pratica solo contro Mannix, ritenuta la serie più violenta del momento, che fece da capro espiatorio per tutte le altre produzioni.

È vero che il protagonista, dopo aver provato a ragionare con i farabutti con le buone, non esitava ad assestare loro qualche pugno dato come si deve. Altrettanto spesso era lui a subire dei pesanti knockout, dopo essersi cacciato da solo in situazioni a dir poco rischiose.

Nonostante questo, in Mannix non ci sono mai stati bagni di sangue o scene di violenza gratuita. Lo stesso Mike Connors non comprendeva questo accanimento sulla serie: "È una serie ricca d’azione, ma non ho mai pensato che fosse violenta"’.

Rispetto a quei tempi i "confini" della censura si sono certamente allargati, e di parecchio.

Una produzione che ha segnato la svolta in questa direzione è senza dubbio NYPD blue, soprattutto per quanto riguarda il ricorso a espressioni volgari e alle scene di nudo o di rapporti sessuali. Steven Bochco aveva in qualche modo previsto il divario che si stava delineando con i network in chiaro e le TV via cavo, e decise di fare qualcosa: “volevo davvero spingere i confini, in termini di linguaggio e di sessualità, ma senza che nulla di ciò fosse gratuito”.

All’inizio praticamente ogni riga della sceneggiatura veniva respinta dal network, come ricorda David Milch: “ci dicevano: non si può dire questo, non si può dire quello, non si può far vedere questo...”. Ma loro lo fecero lo stesso, tanto che la messa in onda della serie fu rimandata per un anno intero. A Steven Bochco va il merito di essersi cocciutamente opposto alle decisioni del network, e dopo infinite contrattazioni - come ricorda lui stesso con un pizzico di ironia - negoziarono per un uso massimo di 37 parolacce per episodio e tutta una serie di scene di nudo o di sesso che si potevano mostrare.

Per esempio, in tema di nudi - come racconta l’editor Farrel Jane Levy - si poteva vedere il il fondoschiena ma non i genitali, si poteva vedere il petto femminile ma non i capezzoli (!).

Naturalmente questo costringeva in fase di montaggio a un lungo lavoro di revisione - fotogramma per fotogramma - di tutte le scene di nudo o di rapporti sessuali, per assicurarsi che non sfuggissero immagini "inopportune"’ neppure per un istante.

Che il gergo di NYPD blue fosse più "libero" di quanto fosse stato nelle produzioni precedenti fu evidente fin dal teaser (la sequenza introduttiva che precede la sigla) del primo episodio, con una battuta del detective Sipowicz (Dennis Franz) che è passata alla storia della televisione. Dopo un’udienza andata male, Sipowicz critica la viceprocuratore Sylvia Costas (che diventerà sua moglie) per non essersi impegnata abbastanza, lei ribatte criticando la perquisizione poco legale condotta da Sipowicz. Lui la provoca ulteriormente, e lei risponde: "I’d say res ipsa loquitur if I thought you knew what it meant" (Direi res ipsa loquitur se lei fosse in grado di capirne il significato). A quel punto Sipowicz esplode: “Hey! Ipsa this”, le urla toccandosi le parti intime, “you pissy little bitch!”. Sigla.

In realtà quella famosa battuta nacque quasi per caso: racconta Sharon Lawrence (che interpretava la Costas e che molti telespettatori ricorderanno anche nei panni di Maisy Gibbons in Desperate Housewives) che nella sceneggiatura originale il ruolo del viceprocuratore era destinato a un uomo, e infatti la battuta avrebbe dovuto essere "Ipsa this, you pissy little bastard" (assai meno clamorosa). Il ruolo fu attribuito alla Lawrence solo all’ultimo momento, e all’ultimo venne "aggiustata" la battuta in questione.

 

NYPD ebbe un successo enorme fin dall’esordio, e gran parte del pubblico e della critica ne apprezzava - tra le altre cose - proprio il "realismo" del linguaggio (perché, di fatto, è questo il linguaggio che si sente in un vero distretto di polizia newyorkese) e delle scene di intimità, anch’esse come parte integrante del realismo delle vicende, e non certo per le riprese più spinte in sé. Del resto, se nei primi episodi le scene di sesso le faceva soprattutto David Caruso, venne successivamente coinvolto anche Dennis Franz, il cui fisico non era certo quello di un modello.

Lui stesso era riluttante (“Conoscevo il mio aspetto, e sapevo che non era roba da far vedere in TV!”), ma racconta con diletto che durante le riprese della prima stagione, mentre si trovava a New York per girare delle scene in esterno, alcuni passanti gli gridavano frasi del tipo: “Yo, Sipowicz, when are we gonna see your ass?”.

 

D’altra parte alcune frange dell’opinione pubblica non hanno abbandonato l’abitudine alla "polemica" quando ritengono che qualche programma televisivo vada troppo in là.

Qualche anno fa (era il 1999), per esempio, in un episodio di Chicago Hope venne pronunciata la battuta "Shit happens". Per la prima volta - in un canale in chiaro e in un detective drama del prime time - veniva pronunciata la "s-word"’ (come la chiamano alcuni americani con ironico moralismo) senza nemmeno un beep, e l’episodio non mancò di causare scalpore e qualche critica.

Trey Parker e Matt Stone, gli irriverenti autori del cartone animato South Park, hanno subito preso spunto dalla vicenda creando un episodio - intitolato It Hits the Fan - dove la parola "shit"’ ricorre ben 162 volte (il conto è tenuto da un contatore sovraimpresso in basso a sinistra).

Mi dilungo un momento riassumendone la trama non solo perché è spassosa, ma anche perché muove una (non troppo) sottile critica al sistema della censura e all’eccessiva importanza che si tende a dare all’uso di termini volgari in televisione: a South Park si diffonde la notizia che nel famoso telefilm Cop Drama verrà pronunciata la fatidica parola "shit". L’incredulità è generale, e tutti restano incollati alla televisione per aspettare il fatidico momento (trasmesso anche sul megaschermo a Times Square davanti a una folla esultante). La parola viene pronunciata e gli ascolti del network vanno alle stelle. La mattina seguente, visto che la parola è stata usata in televisione, tutti si sentono autorizzati a impiegarla. Vengono persino comunicate agli studenti le nuove strampalate direttive scolastiche in merito all’uso della parola: l’insegnante spiega che è ammesso l’utilizzo solo nella forma non letterale (per es. la frase "That’s a shitty picture"’ è ammessa, ma non "This is a picture of shit"). Uno studente chiede se è ammesso l’uso in forma esclamativa, come in "Oh, shit!".  "Sì, adesso si può", risponde l’insegnante. Il colmo dell’assurdo viene raggiunto quando un altro studente chiede se si può dire "I have to take a shit" (devo andare a c***are). "NO! NO!", risponde l’insegnante. Puoi dire: "Oh, shit, I have to poop!"’. ("Oh, m**da, devo fare la pupù"’).

In seguito al boom dei network privati via cavo, molti autori hanno avuto a disposizione risorse economiche sufficienti per poter sfruttare questa nuova realtà come terreno di sperimentazione e di maggiore libertà.

Producendo per un network privato, infatti, è più facile esprimersi senza troppi vincoli imposti per andare sempre più "oltre"’, fare e dire quello che fino a pochi anni prima sarebbe stato impensabile e, in sostanza, vedere fin dove è possibile arrivare.

Ne sono nate produzioni come Oz (HBO), telefilm ambientato in un carcere di massima sicurezza dove è particolarmente sviluppato il tema della violenza; Sex & the City (HBO), dove si esplora il tema della sessualità; The Shield  (FX) dove l’eroe è un poliziotto semicorrotto che se ne frega di qualunque regolamento; The Sopranos (HBO), dove l’eroe è un capomafia; Six Feet Under (HBO), che sviluppa il tema della morte narrando le vicende di una famiglia di becchini; e l’elenco potrebbe andare avanti.

Sembra proprio che questa volontà di innovazione e di sperimentazione abbia pagato, se si considera il grande successo - di pubblico e di critica - riscosso dalle produzioni che abbiamo elencato (chi avesse seguito la cerimonia di consegna dei premi Emmy, il 18 settembre scorso, avrà constatato quante statuette sono andate al network HBO...).

Forse dovrebbero rifletterci un momento anche coloro che, sui nostri canali televisivi, assegnano bollini rossi o relegano in tardissima serata produzioni di alta qualità che oggigiorno non costituirebbero motivo di turbamento per nessun bambino e che, anzi, sarebbero occasione di riflessione e di accrescimento personale.

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