Ho letto questo romanzo nell’estate del 1977. Avevo sedici anni e già da almeno quattro ero passato dalle letture salgariane a Segretissimo. Sua Altezza Serenissima il principe Malko Linge aveva dodici anni di vita letteraria ed era ancora scritto ‘sempre’ da Gèrard de Villiers. Era nel pieno delle sue forze narrative ed era riuscito, dopo la morte di Fleming, a creare un mito capace di rivaleggiare, almeno in libreria, con 007. Come? Inserendo una stretta aderenza alla cronaca politica del suo tempo, trame ben strutturate e molto ritmate e dosi piuttosto massicce di sesso e violenza. Ma questo romanzo aveva qualcosa di più. Aveva il sapore della grande Avventura e anche lui, la spia dagli occhi d’oro, uomo poco incline alla violenza fisica rispetto ai suoi colleghi di carta e celluloide, restava sin dalle prime pagine prigioniero dell’Africa, e dei suoi incantamenti. I tesori nascosti e le donne, in particolare.

La situazione di partenza è abbastanza semplice. Il Negus è appena morto e l’Etiopia si trova divisa tra la dittatura comunista del Derg e il movimento rivoluzionario di sinistra ma più o meno appoggiato dagli americani dell’EPRP. Si favoleggia di un tesoro in polvere d’oro lasciato dal Negus in un luogo nascosto e accessibile a certi dei suoi sostenitori. SAS è incaricato di ritrovarlo per rifornire l’EPRP di armi acquistate da un bulgaro. Contro di lui il brutale Manur Tacho, della polizia speciale, cattivo emblematico dell’Africa più brutale asservita a burattinai estranei alla sua realtà. Sì perché, pur restando la posizione dell’autore piuttosto sciovinista e dichiaratamente schierata contro l’Unione Sovietica, è ovvio che neanche la CIA ha il minimo interesse per il futuro dell’Etiopia. Triste lungimiranza. Lo schema è quello classico di molte avventure di SAS e dello spionaggio americano dell’epoca. Fomentare una rivolta per mettere un tiranno al posto di un altro. E a questo gioco SAS si presta con riluttanza perché, seguendo le orme di von Clausewitz per lui ‘lo spionaggio resta un mestiere da gentiluomini’. Cosa di certo non molto possibile in Etiopia dove si tortura con feroce. Non solo SAS deve sopportare la tortura del pepe, le brutalità dell’una o dell’altra parte ma fanciulle innocenti come Wallelaentraineuse dal seno favoloso, ci rimettono la pelle. E qui emerge forse l’ispirazione migliore di De Villiers che in questi anni scrive alcune delle sue migliori storie africane. Se pure resta l’immagine idealizzata del’espatriato europeo ( presente in questo romanzo in diverse figure di cialtroni ma simpatici comprimari) lo sguardo dell’autore si sofferma su paesaggi veri, non depliant da cartolina. La bellezza del paese è indubbiamente deturpata dalla presenza di ‘ suggeritori’ estranei. La caccia all’oro del negus diventa per il principe delle spie un’avventura da viversi per se stessa, una questione di onore. E l’Africa trova la sua migliore espressione proprio nei personaggi femminili tre giovani etiopi,: Wallela, una ragazza che ‘si arrangia’, Elmaz, una nobile decaduta e Sarah Massawa una guerrigliera, straordinariamente diverse e appassionate. Ad alcune di loro, come è convenzione, è riservato un destino difficile e perfino crudele. Tutte cadono tra le braccia dell’eroe ma anche questa è una convenzione anche se c’è qualcosa di romantico che fa capolino nei loro rapporti con SAS, soprattutto nel modo in cui lui le considera, amplessi a parte. Poi sono presenti alcuni elementi che poi verranno ripetuti sin troppo nella serie ma che, all’epoca, erano genuini. Dick Bruce, il residente della CIA, è una figura emblematica di funzionario ormai disilluso, d’aiuto ma non completamente affidabile, interessato ai suoi traffici di reliquie religiose copte. E con lui una serie di altri europei ormai incapaci di fuggire dal luogo dove si sono rintanati Jorgensen, il pastore svedese che tratta con i ribelli e soprattutto Hans Meyer un vecchio europeo alla fine felice di morire in quella terra così ingenuamente sognata.. Gente crudele, coraggiosa, meschina: insomma l’intero palcoscenico dei caratteri dell’avventura. E, al di là del’indagine per recuperare il tesoro, è la fase finale che ancora oggi mi ha lasciato un grande piacere. L’oro, finalmente, è lì. Quasi una montagna intrasportabile che bisogna far uscire dal paese prima che la rete di Tacho si chiuda. La fatica, la disperazione del trasporto dei sacchi d’oro sino al camion in un tempo limitato mi avevano lasciato un ricordo indelebile e tornano a rendere viva, appassionante quella che, altrimenti sarebbe ‘ solo’ un’altra missione di spionaggio. Alla fine l’oro, ciò che può comprare, le motivazioni politiche perdono d’importanza nella savana africana. Contano la fatica, il sudore e le lacrime necessari a compiere l’impresa. E la fuga finale in cui si pareggiano i conti ha qualcosa di epico, quasi di western. Una delel poche volte in cui vediamo SAS esercitare freddamente atti di violenza, lui che è un personaggio costruito per gestire gorilla e sicari ma raramente a differenza di altri si lascia coinvolgere. E il finale di certo non gradito ai signori della CIA sottolinea come, almeno in quegli anni, Malko Linge fosse ancora più un principe dell’avventura che una spia.