La quarta uscita della collana da edicola “Bruce Lee e il grande cinema della arti marziali”, firmata dalla Gazzetta dello Sport e curata da Stefano Di Marino, è un film molto particolare: si tratta del primo ed unico lungometraggio diretto da Bruce Lee. (In realtà aveva già concepito ed iniziato a girare il suo più grande progetto, “Game of Death”, quando la morte gli impedì di portarlo a termine: tecnicamente, quindi, quest’ultima non può essere contata come regia.)

Dopo una lunga carriera come attore, iniziata men che decenne e sempre sviluppata in piccoli ruoli di poco spessore, l’enorme successo riscosso dai film marziali interpretati da Lee, come “Dalla Cina con furore”, gli consentì di poter chiedere di diventare anche regista, mansione che ricoprì in modo forse un po’ grezzo ma comunque dignitoso. Il risultato è “L’urlo di Chen terrorizza anche l’Occidente” (Meng long guo jiang / Way of the Dragon, 1972).

Non ci si lasci ingannare dall’orribile titolo italiano (ampliato anni dopo con “L’urlo di Chen terrorizza tutti i continenti” affibbiato al film “Rider of Revenge”, 1971): l’unico legame che il film ha con i precedenti è la trama molto stereotipata e gran parte del cast in comune. Lee torna a vestire i panni del campagnolo che sbarca in città (così come in “Il furore della Cina colpisce ancora”), trova gli amici inguaiati col boss locale (con il solito

Bruce Lee nel "vero" Colosseo e poi in un teatro di posa
Bruce Lee nel "vero" Colosseo e poi in un teatro di posa
cinese rinnegato, interpretato dal mellifluo Wei Ping-Ao) e giù botte fino al big fight, il combattimento finale che, nella sana tradizione di Hong Kong, è lungo fino ai limiti della sopportazione dello spettatore.

La particolarità di questo film è che gli esterni sono girati a Roma, per la gioia dei tantissimi fan italiani (e romani!) che applaudirono l’uscita della pellicola nelle sale il 1° gennaio 1975. Piazza Venezia, piazza Navona e tanti altri celebri luoghi turistici di Roma sono immortalati nel film, compreso il Colosseo che campeggia in molte locandine italiane con Lee che gli salta sopra. Novello gladiatore, Lee scelse proprio questa location per rappresentare il combattimento finale del film, ma non ci si lasci ingannare: solo alcune inquadrature esterne vennero effettivamente filmate nel monumento romano, mentre tutta la sequenza marziale è girata in un posticcio teatro di posa di Hong Kong. (E chiunque abbia visitato anche solo una volta il Colosseo può riconoscere a colpo d’occhio che la location non assomiglia neanche lontanamente al celebre anfiteatro!)

Bruce Le (Ho Cung Tao) nelle stesse location di Lee nel film "Bruce Lee Supercampione"
Bruce Le (Ho Cung Tao) nelle stesse location di Lee nel film "Bruce Lee Supercampione"
Gli esterni della Città eterna piacquero non poco agli spettatori asiatici, tanto che nel 1976 per il film “Bruce Lee Supercampione”, che voleva ripercorrere l’ascesa al successo del grande attore ma che invece presentò un tipico personaggio da B-movie, tornò a Roma e utilizzò le stesse location (e anche alcuni attori) del film di Lee. Nel 1982 il film “Bruce Lee vive ancora” (Xiong zhong / Bruce Le Fights Back) fa un uso ancora più massiccio di ambientazioni romane: altro che Colosseo, c’è un combattimento niente meno che in piazza San Pietro!

 

Fra i cattivi del film (che, nella sana tradizione dei gongfupian, sono tutti non-cinesi) troviamo tre artisti marziali di rilievo. Whang In-Sik, maestro coreano di hapkido che Lee volle scritturare anche per il progetto incompiuto “Game of Death” (e le cui scene sono oggi visibili all’interno del film “L’ultimo combattimento di Chen”, 1978), in seguito reso celebre da alcuni spettacolari combattimenti contro Jackie Chan; Robert “Bob” Wall, destinato a diventare celebre per il suo ruolo di O’Hara ne “I 3 dell’Operazione Drago” (Enter the Dragon, 1973) e che già qui, come nel successivo film, presenta una cicatrice sul volto, forse ricordo di qualche match finito male!

I tre "cattivi" del film: Chuck Norris, Whang In-Sik e Bob Wall
I tre "cattivi" del film: Chuck Norris, Whang In-Sik e Bob Wall
La palma d’onore spetta, ovviamente, a quel Chuck Norris che oggi è icona del genere ma che all’epoca era un illustre sconosciuto per gli spettatori. È proprio questo film a “battezzarlo”, aprendogli le porte del cinema di Hong Kong (in pessimi film come “Massacro a San Francisco”, 1974) e in seguito di quello hollywoodiano: negli anni ’80 sarà proprio Norris a sdoganare il genere marziale negli States e a dare vita ad un filone destinato a durare quasi un ventennio.

Il suo combattimento finale contro Bruce Lee in questo “L’urlo di Chen terrorizza anche l’Occidente” - è innegabile - scrive una delle pagine più celebri del genere: la morte di Lee fece sì che la scena segnasse una sorta di passaggio del testimone dal cinema marziale con gli occhi a mandorla a quello occidentale. Ricordiamo infatti che per moltissimi anni il mercato mondiale accettò solo Lee come star cinese: lo stuolo di bravissimi attori di Hong Kong che stavano nascendo vennero rifiutati a scatola chiusa - e lo sono ancora! -, compreso Jackie Chan, che ha impiegato quasi vent’anni per riuscire ad imporsi sul mercato statunitense: altre grandi star quel mercato non l’hanno ancora mai visto!

Norris invece riuscì a continuare l’opera Lee - con le dovute proporzioni - e a far capire all’Occidente che i film marziali non sono necessariamente di bassa qualità, aprendo così le porte a star statunitensi decisamente migliori di lui, ma che comunque gli devono molto.

L’urlo di Chen terrorizza anche l’Occidente” è un film inferiore alla somma delle sue parti. Ha tante peculiarità e tanti particolari unici, ma messi insieme creano solo un film per appassionati. Chi voglia avvicinarsi al film con occhi moderni, si ricordi quindi di tenere in considerazione i tanti fattori e si gusti con mente aperta l’opera prima di Bruce Lee, un uomo che fino a qualche anno prima era un attore di contorno in patria e una caricatura cinese negli States: un bel passo in avanti, non c’è che dire.