«Ho sempre avuto paura degli specchi»: così confessava nelle interviste Jorge Luis Borges la sua storica antipatia-paura per questi oggetti. «Temetti, a volte, che cominciassero a divergere dalla realtà; altre, di vedere sfigurato in essi il mio volto da strane avversità» (“Gli specchi velati”, da L’Artefice, 1960). Lo specchio ha da sempre affascinato l’uomo, in quanto qualsiasi cosa che mostri esattamente come siamo ci crea inquietudine. Scrittori e pittori hanno sempre amato il “mistero” che si cela dietro lo specchio, e sin dalla nascita anche il cinema ha sempre partecipato al “gioco di specchi”. Nel 2003 il coreano Kim Sung-ho scrive e dirige un piccolo film, “Into the Mirror” (Geoul sokeuro), che gioca sottilmente con la peggiore delle paure quando ci specchiamo... che l’immagine possa prendere vita.

Woo Yeong-min è il responsabile della sicurezza di un lussuoso grande magazzino, ripiego che ha dovuto scegliere dopo la fine della sua carriera in polizia: durante una difficile situazione con ostaggi, infatti, Woo ha confidato nella propria eccezionale bravura di tiratore per sparare ad un criminale che teneva un ostaggio, non accorgendosi però che stava mirando ad uno specchio! Andato a vuoto il colpo, il criminale ha ucciso l’ostaggio ed è divenuto l’incubo delle notti agitate di Woo.

Nel grande magazzino, prima della grande apertura dopo un violento incendio, avvengono due suicidi anomali, tanto misteriosi che alla fine l’ispettore Jeong Il-seong si convince trattarsi di omicidi: entrambe le vittime, infatti, avevano lavorato nello stesso settore dell’unica vittima dell’incendio di mesi prima, e quando il terzo “suicidio” interessa un altro dello stesso settore, l’ispettore Jeong capisce di trovarsi di fronte ad un omicida seriale.

Locandina italiana del film
Locandina italiana del film
Probabilmente qualcuno sta vendicando l’unica vittima dell’incendio, e la comparsa fra i sospettati di Lee Ji-hyeon, sorella gemella della vittima, fa sembrare il caso chiuso. Ma dagli specchi del grande magazzino continua ad apparire un’entità maligna, e Woo dovrà fare in modo di avvalersi dell’aiuto di Lee per indagare sui veri eventi accaduti alla di lei sorella.

 

Alle atmosfere da thriller si aggiunge una forte dose di inquietudine dovuta all’inserimento del tema degli specchi, elemento di solito evitato dal cinema per un semplice motivo tecnico: se si inquadra uno specchio, si vede la telecamera che riprende! Sapientemente in questo film alla telecamera viene sostituito l’osservatore: non ci sono quindi solo le due sorelle, le due facce dello stesso specchio, ma anche chi le osserva: lo spettatore, certo, ma anche il responsabile della morte di una di queste.

Ci scusiamo con il lettore ma dobbiamo rivelare il finale del film, confidando nel fatto che “Into the Mirror” va gustato per la sua esecuzione, non per il colpo di scena finale. Accanto ad un’atmosfera paranormale, di una donna che dagli specchi uccide delle persone, c’è anche una storia poliziesca che segue il suo corso: la sorella di Lee è veramente deceduta, ma non nell’incendio come si vorrebbe far credere. Ella, durante tutta la storia, giace morta nel grande magazzino nascosta dietro uno specchio, elemento tramite il quale la sua anima si vendica di chi ha causato quella sorte. (Un elemento che ricorda “The Ring” di Hideo Nakata, sostituendo qui gli specchi con l’acqua)

Ritratto dei coniugi Arnolfini
Ritratto dei coniugi Arnolfini
Giallo e paranormale si fondono alla perfezione nello specchio, e non è certo la prima volta che succede: Kim Sung-ho cerca fondamento per la sua storia addirittura nell’arte pittorica! In una sequenza memorabile, vengono proposti allo spettatore celebri dipinti europei che mostrano il rapporto del soggetto con lo specchio, che il più delle volte non mostra l’immagine riflessa ma molto di più. Sono dipinti del doppelgänger, del doppio da sé, dello spettro che si nasconde in ognuno di noi e che nello specchio trova lo strumento per mostrarsi: in fondo è di questo che il film parla, di una donna che morendo sprigiona negli specchi che l’hanno vista morire il proprio doppelgänger.

Un altro dipinto fondamentale ai fini della storia è il celebre Ritratto dei coniugi Arnolfini, fra i primi ritratti privati che si conoscano e firmato dal maestro fiammingo Jan Van Eyck nel 1434. Fiumi di inchiostro sono stati versati su questo quadro cercando di interpretare la moltitudine di segni e simboli che Van Eyck ha lasciato alla posterità: la sua infinita perizia per i particolari ha fatto sì che questo quadro sia un vero e proprio

Particolare dello specchio con visibile il pittore in persona
Particolare dello specchio con visibile il pittore in persona
arazzo di simboli per la gioia di critici ed appassionati. Quello che a noi e allo sceneggiatore del film interessa è lo specchio che si vede alle spalle dei due coniugi ritratti: essendo questo posto al centro del quadro, non può che ritrarre ovviamente anche il pittore che sta dipingendo! Questo elemento sarà d’aiuto a Woo, il quale ha trovato una foto delle due sorelle... con un riflesso al centro, proveniente dall’oblò di una lavatrice: un riflesso che mostra chi ha scattato la foto, chi cioè segretamente frequentava la sorella ora defunta... un possibile indiziato quindi.

Un film, come si diceva, che alterna una storia poliziesca al paranormale: binomio che viene subito tradito dall’immancabile remake statunitense della pellicola, il quale mette subito da parte le indagini per dedicarsi esclusivamente ad una trama che, privata di uno degli elementi, risulta decisamente povera. In “Riflessi di paura” (Mirrors, 2008) Alexandre Aja non solo dirige ma anche scrive (insieme a Grégory Levasseur) un film che in realtà risente della perdita di un elemento fondamentale, il thriller. La sola storia paranormale non basta a far stare in piedi il film, così il regista decide (con una scelta discutibile, aggiungiamo noi) di attingere ai temi che hanno saturato il mercato della ghost story negli ultimi decenni.

Ben (Kiefer Sutherland) è un poliziotto momentaneamente sospeso che trova un lavoro come guardiano notturno in un grande magazzino distrutto da un incendio. Durante i suoi turni accadono cose strane nell’edificio, apparizioni inquietanti che terrorizzano l’uomo. Sembra però che queste apparizioni siano finalizzate a qualcosa: sembra che le entità che abitano gli specchi vogliano che lui cerchi una persona, Esseker. Ben dapprima non capisce l’entità della “richiesta”, ma quando la sorella viene uccisa misteriosamente, intuisce che i propri familiari sono in pericolo finché lui non avrà trovato Anna Esseker. Trovata faticosamente la donna e portata nel grande magazzino, si scatenerà una lotta “ectoplasmica” dagli esiti inaspettati.

I 110 minuti del film sono infinitamente troppi per contenere una storia di fantasmi che avrebbe trovato miglior spazio in un telefilm dedicato al paranormale. Abbandonando in toto l’elemento giallo della storia coreana, gli sceneggiatori di “Riflessi di paura” hanno dovuto rimpolpare la sceneggiatura prendendo qua e là elementi di cui forse si poteva benissimo fare a meno. Dopo “Il sesto senso”, “Echi mortali”, “Dark Water”, vedere un altro bambino che parla con i fantasmi non regala più forti emozioni allo spettatore come le prime volte, così come la trovata di far morire i propri familiari per spronare il protagonista si rifà forse un po’ troppo a “The Ring” per risultare un’idea azzeccata.

Lo stesso finale del film, che in questo caso non riveliamo, risulta orfano. Mentre per tutta la pellicola gli sceneggiatori hanno tradito l’originale coreano, il finale del film di Kim Sung-ho era troppo perfetto, troppo inquietante per essere ignorato, così viene ripreso identico nel remake statunitense... dimenticandosi però che nell’originale c’era un motivo ben preciso per cui il protagonista finisse in quel modo, motivo che nel remake è stato tagliato di netto! Un finale a metà, quindi, che stordisce lo spettatore che non abbia visto l’originale coreano, ma proprio questo stordimento gli impedisce di riflettere sul “perché” si sia arrivati a quel finale: gli impedisce cioè di rendersi conto che non esiste un perché, visto che la causa è stata sradicata di netto dagli sceneggiatori.

Due film molto diversi, quindi, benché uno il remake dell’altro. Un film sull’inquietudine innata dell’uomo verso gli specchi, sul mistero che l’immagine riflessa rappresenta, sul doppelgänger... e poi la solita storia di fantasmi vista e rivista, con assolutamente niente di nuovo da dire. Intenzioni diverse alla base, anche se alla fine i due film sono comunque prodotti di pregevole fattura.

Ci piace chiudere con un omaggio terribile agli specchi, firmato ancora da Borges: «Dio ha creato le notti che si colmano / Di sogni e le figure dello specchio / Affinché l’uomo senta che è riflesso / E vanità. Per questo ci spaventano.» (“Gli specchi”, da L’Artefice, 1960. Traduzione di Francesco Tentori Montalto)