Visto che dopo lunga gestazione l’ultimo film del grande Park Chan-wook è stato presentato a Cannes 2009, è il momento di colmare la cesura tra la ormai celebre trilogia della vendetta (Sympathy for Mr Vengeance, Old Boy, Sympathy for Miss Vengeance), e il prossimo Thirst, come già a detto a Cannes dove si è aggiudicato il Gran Premio Speciale della Giuria (attenzione!, quasi una seconda Palma d’Oro…), gettando uno sguardo su I’m a Cyborg but that’s OK, mai visto in sala da noi ma reperibile senza grandi sforzi via web in uno dei numerosi siti dedicati al cinema asiatico.

Per male che sia andato (flop in patria…), è stato pur sempre in concorso al 57mo Festival di Berlino, dove per inciso si è portato a casa il Premio Alfred Bauer (fondatore e il direttore dello stesso festival dal 1951 al 1977) “per l’innovazione del linguaggio cinematografico”.

Il primo approccio al film è ostico assai, perché ancora troppo vivo negli occhi e nella mente il ricordo dei capolavori precedenti. È questo il motivo che fa un po’ faticare per accettare senza un minimo di perplessità un’opera di non semplice classificazione. A mente fredda e dopo qualche visione “aggiuntiva” le cose tornano al loro posto e il giudizio inizia a prendere una forma, seppure approssimativa.

Di certo siamo di fronte ad un taglio netto rispetto a quanto il Nostro ha fatto sino ad oggi non tanto in termini di messa in scena, perché anche stavolta la bellezza del film è a tratti abbacinante (tutta la sequenza iniziale con la lunghissima fila di operaie al lavoro all’assemblaggio di apparecchi radio), ma perché in questo caso a momenti diversi corrispondono registri diversi, quanto mai rapidi nel passarsi il testimone.

La storia di suo sarebbe drammatica, malattia mentale tout court, ma Park Chan-wook ne sviluppa le conseguenze ora con i toni della commedia, a tratti anche divertente, ora con quelli surreali, sui quali governa con uno sguardo molto attento ai meccanismi mentali della follia con l’aggiunta di ciò che appare come una critica, neanche tanto velata, nei confronti dell’approccio medico-biologico alla malattia mentale stessa, argomento, questo della malattia mentale che di sicuro trova terreno fertile nel nostro che più volte ha dichiarato la sua incondizionata ammirazione per Il corridoio della paura di Samuel Fuller (anch’esso, come ricorderà chi l’ha visto, ambientato all’interno di un manicomio).

L’abbrivio della storia è fornito dalla convinzione delirante di Young-goon (Lim Su-jeong) di non essere altro che un cyborg. Ne discende la scelta di smettere di nutrirsi limitandosi a leccare delle pile elettriche per ricaricarsi. La conseguenza immediata è il ricovero in un ospedale psichiatrico dove si imbatterà in altri ricoverati tutti pronti a condividere un universo dove ognuno insegue la sua particolare fantasia che molto spesso finisce con cozzare contro quella dell’altro, dove ci si ruba a vicenda qualcosa che non necessariamente consiste in oggetti (il servizio di ping pong ad esempio…), un luogo dove lo yodel diventa la colonna sonora delle giornate via via tutte uguali, dove si può volare rimanendo sdraiati a letto semplicemente sfregando tra loro due calzini di lana, salvo poi, quando la capacità di sopportazione di Young-goon si esaurisce, fare una strage, seppure “in fantasia”, del personale medico e infermieristico grazie a delle mitragliatrici che le fuoriescono dalle dita.

La soluzione alla sofferenza di Young-goon, se non del film, al quale nuoce un poco la sua ricercata scarsa compattezza, sembra essere l’amore, cibo per la mente necessario al pari di quello per il sostentamento del corpo, in definitiva un modo sano di mettersi in relazione con l’altro l’amore, capace di sanare gli errori percettivi di una spotless mind come la sua.

Forse la guarigione passa anche attraverso il “mangiare per amore” e chissà se Thirst, storia di religione e vampiri, ma anche di amore e fame, aggiungerà qualcosa a temi del genere, scoprendo magari che mangiare è anche un modo elegante per non finire mangiati…