Incolpata ingiustamente del rapimento e dell’uccisione di un bambino, Geum-ja si ritrova condannata a tredici anni di carcere. Scontata la pena non pensa ad altro che a come vendicarsi del vero responsabile dell’omicidio, Mr Baek, un insegnante pedofilo…

Se Sympathy for Mr. Vengeance equivaleva a scrivere del e sull’inizio di un trittico sulla vendetta a firma di Park Chan-wook, per logica conseguenza Sympathy for Lady Vengeance significa scrivere del e sulla fine del succitato trittico, oramai già divenuto imprescindibile pietra di paragone per qualunque film che intenderà affrontare ancora il medesimo tema.

 

Anche stavolta, meglio chiarirlo subito, ci si trova di fronte a un film che oltre a brillare di una luce che gli è propria (al pari dei precedenti, d’altronde), è capace al contempo di ritagliarsi uno spazio del tutto personale nell’ennesimo approccio al tema della vendetta, approccio che stavolta assume un valore sensibilmente più teorico rispetto agli episodi precedenti, dove teorico va inteso come temporanea sospensione della spinta vendicativa.

 

In Sympathy for Mr. Vengeance la vendetta, nel suo dispiegarsi, assumeva rapidamente le caratteristiche di un complesso, non meno che implacabile, meccanismo dove a ogni azione finiva col corrispondere una reazione. La vendetta che ognuno cercava sull’altro, chi ritrovatosi ingannato e senza un rene sui trafficanti d’organi, chi vistosi rapire la figlioletta sui responsabili del rapimento, sfociava ben presto in una serie di eventi che una volta avviati non conoscevano pressoché sosta. Dato il "la" alla vicenda, la disperata ricerca di un rene, il gioco ben presto sopraffaceva di gran lunga il volere individuale dei personaggi fino a risucchiarli, dal primo all’ultimo, in un vortice di disperata crudeltà dove la parola fine era scritta anch’essa con altrettanta disperazione e crudeltà.

In Old Boy al contrario la strada seguita appariva diversa. Più che vittime di un meccanismo implacabile i personaggi erano nettamente differenziati tra chi teneva le fila del gioco e chi il gioco era costretto a subirlo, gioco reso ancor più complesso dallo spiazzamento pressoché continuo delle attese dello spettatore, basti pensare all’inversione tra quello che per gran parte della storia appare come il fine (il rapimento e la lunghissima prigionia) che al contrario si svelerà più avanti essere soltanto il mezzo per ottenere un fine ben diverso da quello atteso (e sul quale anche stavolta si preferisce tacere …).

 

Con Sympathy for Lady Vengeance, Park Chan-wook apre un terzo fronte, ancora differente. Né implacabile come in Sympathy for Mr. Vengeance, né spiazzante nell’inversione del binomio mezzo-fine come in Old Boy.

 

Vero è che si è pur sempre di fronte ad una vendetta annunciata, resa ancor più urgente dalla rabbia accumulata durante una lunga detenzione, al pari di Old Boy quindi, ma altrettanto vero è che quest’ultimo sussulto vendicativo al di là della sua pianificazione (stavolta non particolarmente complessa), sfocerà in una vera e propria riflessione teorica sulla messa in atto di un’azione così antica eppure così attuale, riflessione che Park Chan-wook sceglie di declinare ancor prima che in azione in una vera e propria presa di decisione collettiva su cosa fare del colpevole, tema, questo del conflitto tra giustizia ufficiale e giustizia privata, che si riallaccia prepotentemente perlomeno a Fritz Lang e al suo M - Il mostro di Düsseldorf.

Anche questo terzo fronte è destinato a nutrirsi di quel talento visivo che ha accompagnato i capitoli precedenti. Sympathy for Lady Vengeance non è soltanto un film capace di brillare di luce propria, come già detto, ma quella stessa luce risulta a tratti abbagliante per come dimostra di saper attingere a un universo che abbiamo imparato a conoscere, un universo ostinatamente fondato su una straordinaria ricchezza dei particolari, sull’estrema varietà delle situazioni, sui toni ora buffi ora tragici, sugli inserti a metà tra l’onirico e l’allucinatorio (Geum-ja che in una distesa innevata si trascina dietro una slitta-gabbia con dentro il mostro della storia, metà bestia, metà umano), sulle precise caratterizzazioni dei personaggi, tutti elementi che alla fine fanno di Sympathy for Lady Vengeance il film visivamente più collettivo, più bizzarro, e infine più mosso dell’intera trilogia, come se in procinto di congedarsi e quindi nell’atto di chiudere il cerchio e tirare le somme, Park Chan-wook abbia messo mano a tutto quello che nei due capitoli precedenti aveva lasciato da parte.

A cerchio chiuso e a somme tirate ciò che rimane della trilogia è moltissimo: una costruzione visiva che unisce con rara efficacia rigore e invenzione, delle interpretazioni così viscerali che fanno apparire patetiche oltre misura la maggior parte di quelle apparse a Venezia (dove Sympyathy for Lady Vengeance era in concorso), ma soprattutto la forza di un apologo morale capace di attirare l’attenzione e far riflettere su un tema di cruciale importanza.

 

Per concludere: Park Chan-wook appartiene a quella schiera mai troppo folta di cineasti che con i loro film sanno indicare qualcosa posto ben al di là dello schermo.

A ciascuno la scelta: fissare quest’ultimo o sforzarsi di guardare più in là.