Dovranno ricredersi, dopo questo romanzo di Valerio Varesi dagli altissimi echi foscoliani, quanti ancora ritengono gli autori di noir una sorta di scrittori di serie B. Il paese di Saimir è un esempio incontrovertibile di quel che un “giallista” può fare: un piccolo gioiello dal punto di vista formale, una drammatica testimonianza sociale e psicologica dal punto di vista dei contenuti. Come ogni vero capolavoro della letteratura “alta”.

Il volume esce nella collana “verde nero - noir di ecomafia”, su carta rigorosamente riciclata e con una bella postfazione di Antonio Pergolizzi, Coordinatore dell’Osservatorio Nazionale Ambiente e Legalità di Legambiente. Hanno preceduto Varesi altri nomi autorevoli, fra i quali Simona Vinci, Giancarlo De Cataldo, i Wu Ming, Loriano Machiavelli e Girolamo Di Michele, tutti proponendo “romanzi socialmente utili”. Ogni autore versa una parte dei suoi diritti al progetto SalvaItalia di Legambiente, il cui scopo è la promozione di una nuova cultura della legalità e dell’ecologia.

La trama di questo romanzo è semplice: un palazzo crolla, e sotto le macerie resta sepolto un ragazzo albanese di diciassette anni. E’ clandestino, quindi invisibile, e tale deve restare: da vivo e da morto. Come quell’altro grande eroe afroamericano che lo ha preceduto, e che non aveva nemmeno un nome - l’ “uomo invisibile” del celebre romanzo di Ralph Ellison - Saimir è consapevole della propria invisibilità, che è una necessità prima ancora che una condizione esistenziale. E come il poeta che dall’esilio dedicò i suoi versi a Zacinto, la sua isola natale, Saimir pensa, pur con un lessico meno lirico, che non avrà nemmeno una tomba: “mi butteranno via come si fa con le bestie […] chissà dove mi ficcheranno pur di non farmi vedere a nessuno. […] Invisibile ero e invisibile devo restare, anche da morto”.

Dall’altra parte dell’Europa, sua madre Vera pensa a tutti i suoi figli, che il mondo occidentale con i suoi miraggi le ha portato via. Sparsi per l’Europa e l’America, sono rimati una memoria lontana, una ferita che non cessa di bruciare. Pur auspicando la loro fortuna, Vera prova il dolore del distacco e della lontananza, e vorrebbe vicino almeno Saimir, il più piccolo, volato via dal nido prima che fosse uomo. Allora, per consolarsi, accende il televisore nella speranza di vedere, in quel susseguirsi fantasmagorico di immagini, anche solo per un attimo, il volto del figlio: “adesso la televisione che le aveva rapito i figli doveva pur farglieli vedere una volta o l’altra. E Vera passava il tempo a guardare come una madre che aspetta alla finestra. […] Era l’unico fuoco rimasto vivo, che lei alimentava con quella sua ossessione di guardare lo schermo per ore cercando di scorgere Saimir. Lei aveva fede e ciò la aiutava. Pensava che non si potesse negare questo piccolo dono a una madre.”

Immagino una trasposizione teatrale di questa storia. Alle due estremità del palcoscenico, in due coni di luce illuminati alternativamente, i due grandi personaggi tragici del racconto: da un lato Saimir, invisibile sotto le macerie, di cui si sente solo la voce in un lungo accorato monologo che mescola paura, rimpianti, maledizioni e sogni infranti; dall’altro Vera alla finestra-televisione, assorta a scrutare lo schermo cercando - e pregando - di trovare non solo il volto del figlio, ma una risposta alla sua attesa (un’altra necessità, un’altra condizione esistenziale). In mezzo fra i due, tutti i personaggi di cui non ho ancora, volutamente, parlato.

In mezzo fra i due, c’è il grande deserto umano costituito dal marito di Vera, dall’imprenditore responsabile del crollo, dal capomastro/”caporale”, dai compagni di Saimir, dai politici, dai rappresentanti della criminalità organizzata. Un inferno in Terra, una bolgia di interessi ed egoismi, un vociare che trasuda egoismo e corruzione, un grande immenso rumore di fondo che disturba il dialogo drammaticamente impossibile tra madre e figlio.

Così immagino il romanzo, trasposto sulla scena. Forse per sentirlo recitato ad alta voce, forse per dare una seconda vita ai suoi personaggi, forse per vedere Saimir alzarsi in piedi, vivo, al temine dello spettacolo.

Varesi lascia per una volta le gesta del suo commissario Soneri, pensoso investigatore padano, e invece di indagare un delitto lo mette in scena nei suoi aspetti più crudi: perché il delitto, c’è, eccome. E’ una delle innumerevoli morti bianche che insanguinano per davvero il nostro paese, e i cui responsabili - impuniti, come spesso accade nella realtà – vengono qui mostrati nella loro più totale assenza di umanità e di coscienza. Non c’è, invece, detection, non ci sono indagini, non c’è nessuno che svolga un’inchiesta. In un paese ossessionato fino alla nausea dal concetto di “difesa della vita”, vite come questa non interessano. Non c’è, paradossalmente, nemmeno una scena del crimine, perché questa viene cancellata, non essendo riconosciuta come tale. E non c’è un assassino. O meglio, c’è un assassinio corale, condiviso: è il liberismo che ha generato l’escrescenza abnorme dell’imprenditoria selvaggia, è la criminalità che ne ha tratto ogni possibile vantaggio, e sono anche le vittime -  veri e propri “Vinti” di statura verghiana - che, comunque, vogliono prendersi le briciole.

Quando, nel lontano 1957, Italo Calvino intitolò un suo romanzo La speculazione edilizia, dimostrando eccezionale lucidità e lungimiranza, non credo che immaginasse che la sua denuncia sarebbe stata ancora così attuale più di mezzo secolo dopo. Eppure i panorami dell’obbrobrio estetico ed etico del paesaggio edilizio italiano sono sotto gli occhi di tutti, e si accingono a deteriorarsi ulteriormente proprio nei prossimi mesi grazie al cosiddetto piano-casa di imminente approvazione. Per non parlare dell’altro tema scottante toccato nel romanzo, ovvero la sicurezza sul lavoro: mai abbastanza tutelata dalla legge, penalizzata dai tagli al personale ispettivo (che dagli anni ’80 si è ridotto circa della metà) e dal ricorso alla manodopera clandestina priva di formazione, la sicurezza sul lavoro ha subìto proprio di recente un ulteriore colpo in quanto, rispetto alla precedente normativa, il DLgs 81/2008 ha aumentato le sanzioni a carico del lavoratore deresponsabilizzando in parte il datore di lavoro. Ricordiamo che nel nostro paese abbiamo circa tre “morti bianche” al giorno, per non parlare degli infortuni.

Un’ultima considerazione riguarda le donne. Vera compresa, sono tutte vittime. Madri e puttane, compagne e segretarie, le donne rappresentano l’anello più debole nella lunga catena del potere e della sopraffazione maschile. Premesso che il brutale marito albanese non è certo peggiore del violento imprenditore italiano, pare non esista alcun terreno di confronto fra i due sessi che non comprenda l’atto sessuale vissuto o come stupro o come transazione economica. L’amore è un pallido raggio di luce che attraversa l’oscurità; un lampo contraddistinto dalla sua stessa, fisiologica, impermanenza.

La morte, la grande livellatrice, risolve qualche problema, ma ne apre altri. Il capomastro trova la propria tomba sui sedili riscaldati del suo Porsche Carrera nuovo di zecca, ma trascina con sé anche l’unico operaio capace di provare qualche rimorso. Restano vivi i due criminali peggiori, ma sono pronti a sbranarsi come bestie feroci in un serraglio.

Questo romanzo di Varesi è una denuncia coraggiosa e commovente, dura e poetica insieme, dell’illegalità, della disonestà, della perdita della coscienza. Ed  è scritto come può esserlo solo un grande romanzo del nostro tempo: mescolando forme e stili, tecniche del montaggio cinematografico e del monologo interiore, prima e terza persona, presente e passato, discorso indiretto libero e linguaggio scurrile, e proponendo così un affresco del mondo in cui siamo immersi e di cui siamo spesso testimoni indifferenti, incapaci di provare non dico vergogna, ma nemmeno la giusta indignazione.

Al termine della lettura, chiudendo il libro, sorge spontanea una domanda. Qual è, in fin dei conti, il senso del titolo? Qual è il paese di Saimir? L’Albania è un paesaggio sfocato e lontano nel ricordo del giovane che muore, ma è anche la terra aspra e dura dove vive sua madre, è la terra della legge spietata del Kanun che per proteggere i bambini dalle faide familiari li costringe ad anni di prigionia domestica, è la terra da cui provengono le prostitute bambine di cui noi incrociamo lo sguardo, la sera, sui viali delle nostre città. E’ il paese di una dislocazione, di un altrove a cui non si vuole, o non si può, fare ritorno. O forse, nell’intenzione dell’autore, è il paese che diventa la summa di tutti i luoghi della perdita, meta di un nostos senza fine, isola che si fa rarefatta nella memoria limbica,  condanna perpetua alla non appartenenza.

“Tu non altro che il canto avrai del figlio, o materna mia terra: A noi prescrisse il fato illacrimata sepoltura”, recitava Foscolo rivolto al suo paese natio che non avrebbe rivisto. Il paese di Saimir è l’Albania che Saimir non rivedrà, ma è anche Itaca, Zacinto, Atlantide, e tutte le terre che ci hanno attesi come madri pazienti.