Molto interessante per chi, come la sottoscritta, seguiva Valerio Varesi e il suo commissario Soneri, scoprire questo autore che si cimenta in un romanzo storico, due anni dopo il romanzo-denuncia pubblicato con Verdenero nel 2009, Il paese di Saimir, e tre dopo Le ombre di Montelupo (Sperling & Kupfer, 2008). Coraggiosa la scelta del 1944 come data di partenza, coraggiosa l’ambientazione partigiana, tanto più in un’epoca come la nostra in cui – eccezion fatta per la ricerca accademica e per quella di alcuni virtuosi istituti e scrittori – di quegli anni si preferisce concentrarsi sul “dopo-liberazione” che sul “durante”, anni in riferimento ai quali varie displasie di revisionismo stanno tentando di sovrapporsi – e in alcuni casi cancellare – le più aberranti tragedie del Novecento. La sentenza ricostruisce con fedeltà la vita e la sopravvivenza alla parabola discendente della seconda guerra mondiale, nell’accezione della Liberazione, e lo fa attorno a due personaggi che in qualche modo costituiscono un emblema eccezionale del loro contesto: Bengasi e Jim. Partigiani per caso, il primo avventuriero irrequieto, già legionario finito nel deserto per sfuggire canaglie e divise, è uno di quelli che preferiscono comandare, il secondo finisce spia nella Quarantasettesima Garibaldi del Parmense, dove i destini di entrambi si incontreranno e si intersecheranno a quelli di altri, tanti pezzi di vite, vite che lottano, che annaspano, che vengono recise, che emanano i sudori freddi di chi è sempre sul filo del rasoio: Vampa, Brando, Freccia, la dolce ma ferma Evelina, ciascuno col proprio interesse o col proprio ideale, ciascuno ben delineato, pronto a disegnare il suo pezzo di storia, quella grande. Alle spalle di questo romanzo c’è sicuramente una documentazione significativa dal momento che Varesi riporta con esattezza anche alcuni dettagli quali disposizioni, tattiche, momenti di vita quotidiana, ma, soprattutto, ciò che gli riesce meglio è la riproduzione di quello che definisco il senso della vita (e della morte) di allora: per chi era calato in quei tempi difficili, nella provvisorietà dell’occupazione nazifascista, nella povertà, in un paese già in sfacelo dopo il ventennio mussoliniano.

La scrittura è quella bella e lineare dello scrittore parmense, quella che i suoi lettori hanno già avuto modo di apprezzare nei precedenti romanzi e di cui propongo qui un brano che è anche assaggio della riproduzione di alcune atmosfere belliche e tese, del torpore angoscioso nei momenti successivi al bombardamento:

«Si ritrovarono fuori come un branco di naufraghi nel buio di una notte violentata dalle bombe. Intorno, una visione di rovina e distruzione, di case squarciate che mostravano oscenamente le loro intimità, di grida isolate, di fughe senza meta, di latrati, di fuochi residui e di lamenti. Nell’aria tiepida, si erano mischiati gli odori di carne bruciata e dei tigli, del tritolo e delle panetterie, della fogna e dell’erba falciata, del sangue e dell’incenso di una sagrestia sbriciolata. Della vita indifferente, insomma, che lentamente ricominciava a pulsare come dopo uno svenimento nella grottesca pantomima di quel teatro di rovine, dove i cadaveri immobili giacevano accanto a puerpere agitate dalle doglie...».