La copertina: in primo piano un volto da duro con barba, sigaretta tra le labbra, mascella quadrata, cerotto e pistola tenuta con la mano destra (non so perché ma mi è venuto in mente Stefano Di Marino), mi ha riportato di colpo agli anni cinquanta quando, da ragazzetto più o meno imberbe, seguivo le avventure di Mike Hammer, Michael Shayne e di tanti altri protagonisti della hard boiled americana coi loro uffici scalcagnati, le sedie pericolanti, l’immancabile sigaretta tra le labbra e il solito Wiskey, Cognac, Bourbon o roba simile a portata di mano. Ma anche ai primi noir in cui ci si trova tutta la spazzatura del genere umano tra cazzotti, pistolettate, tradimenti, sesso e droga e la lista sarebbe ancora lunga.

Ho avuto un attimo di indecisione. Poi istintivamente ho tirato giù La gabbia delle scimmie di Victor Gischler, Meridiano Zero 2008, dallo scaffale della solita libreria di Siena, l’ho aperto e ho letto l’incipit “Imboccai la Florida Tumpike con il cadavere decapitato di Rollo Kramer nel bagagliaio della Chrysler…”. Altro momento di incertezza. Io sono per il giallo “tranquillo”. Troppi scossoni mi mettono in ambascia. E qui siamo già in macchina. Poi ho avuto uno scatto deciso. Un po’ di movimento mi avrebbe fatto bene. Mi sono sbagliato. Ma solo su “Un po’”. Questo libro è pura energia, puro movimento. Di trama e di stile.

Si parte con un cadavere nel bagagliaio nella macchina di Charlie Swift, gangster di Orlando (Florida), insieme al collega (svitato) Blade Sanchez e si continua il viaggio per tutto il libro. Viaggio inteso nel senso vero e proprio della parola (c’è di mezzo pure il National Geographic) e viaggio inteso nel senso che non si sta, comunque, mai fermi. Non c’è un attimo di respiro, di riposo (a meno che non si sia in ospedale). Tutto veloce, tutto frenetico. “La gabbia delle scimmie” è il luogo di ritrovo di una banda (ma anche il nome di un blog per discussioni scientifiche e riecheggia in parte il titolo di un libro di Kurt Vonnegut, famoso autore di “Mattatoio n°5”) capeggiata da un certo Stan. Ma c’è chi ce l’ha con lui perché poco attivo, poco dinamico. E allora giù botte da orbi, scontri, sparatorie, morti a go-go, droga, tradimenti, l’FBI, mele marce nella polizia, libri contabili che fanno girare il tutto. Manca il sesso ed è pura meraviglia.

E poi c’è lui, Charlie detto il “Sarto” (perché ha ucciso un uomo con un paio di forbici) che fa parte della combriccola, fratello più piccolo da proteggere e la mamma che è sempre la mamma. Freddo, duro, impassibile. Fisico di ferro. Con le sue regole “Quando hai un capo rimani con lui”, “Sono sempre stato buono con chi è stato buono con me”, che si innamora (di Marcie) e ha il suo attimo di umana debolezza “Mi raggomitolai dentro la giacca e le lacrime cominciarono a scendere rapide e calde lungo il viso”. Un attimo, dicevo, perché poi è tutto un tup tup tup. E se manca la pistola c’è il coltello a farne le veci.

Uomini e un paio di donne, oltre la mamma e Marcie, a completare il quadro. La buona, Amber, e la cattiva Tina che in fondo al libro hanno la loro parte.

Stile ironico (gangster che giocano a monopoli), humour nero, qualche metafora degna di Ross MacDonald insieme a battute scontate. Ma, soprattutto, un continuo, incessante, frenetico movimento.

Mi è venuto il fiatone.