La chiusura di una struttura pubblica è la scintilla che sconvolge gli operatori e i disabili mentali in cura. La successiva morte di uno di loro, forse ucciso dalla polizia, crea un vortice di rabbia cieca che li spinge a organizzare il rapimento di un vicequestore, ritenuto responsabile.

Si barricano armati in una fabbrica dismessa e pretendono giustizia. Per suscitare clamore pubblicano su internet i video degli estenuanti interrogatori cui sottopongono il prigioniero. Il cortocircuito claustrofobico farà detonare la situazione fino alle estreme conseguenze.

Luca Rinarelli vive a Torino, fa parte da anni di un’associazione che si occupa di persone senzatetto e in difficoltà. È autore di lavori fotografici. Ha pubblicato il romanzo In perfetto orario e racconti su diverse antologie.

La gabbia dei matti (Agenzia X) è il tuo secondo romanzo. Com’è nata l’idea?

Un bel giorno mi chiama Matteo Di Giulio, e mi chiede di incontrarci al Salone del Libro di Torino 2010. Vuole parlarmi di un progetto sul noir che ha in mente. A maggio ci incontriamo, e Matteo mi dice che dovrebbe dirigere una collana di noir a sfondo sociopolitico, vale a dire che siano incentrati sulla giustizia sociale, senza indagini poliziesche. Mi parla della casa editrice, che stanno valutando assieme la fattibilità del progetto. A lui era piaciuto molto “In perfetto orario”, e quindi mi fa capire che se il progetto avesse avuto seguito, io sarei stato il primo della collana. E’ del tutto evidente che la mia autostima si sia espansa a dismisura, per qualche secondo. Ho cominciato a pensare ad una possibile storia che non avesse nulla a che fare col mio primo romanzo. Per La gabbia dei matti ho puntato sul cortocircuito mentale che può essere scatenato da due fatti concomitanti. La chiusura di una struttura pubblica assistenziale come una cooperativa sociale, significa la perdita del lavoro per gli operatori, mentre per gli utenti è l’abbandono a loro stessi. L’uccisione di uno degli utenti durante un fermo di polizia, legato da amicizia agli altri pazienti, ma anche agli operatori, scatena la vendetta.

L’idea che voglio dare non è quella di una vendetta a freddo, meditata. Volevo che fosse una reazione emotiva a una misura ormai colma.

Disabili mentali dimostrano di possedere un forte senso della giustizia e si indignano quando questa viene oltraggiata. Il passaggio dall’indignazione alla ribellione...

Il passaggio dall’indignazione alla ribellione è causato dal senso di impotenza di fronte a due ingiustizie subite. Per me questo concetto è fondamentale. L’Occidente ha inventato, tra altre innumerevoli cose, il Diritto nel senso moderno del termine, proprio per poter evitare la giustizia privata. Nessuno pretende che il Diritto risolva sempre tutte le controversie alla perfezione, ma è necessario che le persone non arrivino mai a pensare che la macchina giuridica sia una presa in giro, che serva solo ai potenti. Saremmo al disastro, e probabilmente al ritorno diretto al fai da te, alla legge del più forte su larga scala. Io ho paura che si stia arrivando a questo punto, e gli effetti si vedono già da qualche tempo.

Ma c’è un secondo aspetto che mi interessa. Vedo parecchia incoerenza, in giro. E questa incoerenza è data da simpatie, convenzioni sociali e paure. Mi spiego meglio: se la maggior parte dei cittadini trovano che sia giusto che un negoziante derubato spari alle spalle e uccida i rapinatori in fuga, allora che cosa dovrebbe fare la famiglia di Federico Aldrovandi? Mi sembra evidente l’enorme differenza di gravità del danno subito: una rapina a mano armata da una parte, terribile finché si vuole, e dall’altra la perdita di un figlio pestato a morte, mentre era solo in mano a quattro o più persone. Comportandosi seguendo le regole del Diritto, i familiari di chi muore mentre è custodito dallo Stato vanno puntualmente incontro a omertà, difficoltà enormi, ostracismo.

Ma siamo poi tutti un po’ matti?

Che questa società tenda a portarci alla follia, non è un mistero.

Una fabbrica dismessa come regno claustrofobico: come ti rapporti agli spazi e alle ambientazioni?

Già in In perfetto orario avevo usato la fabbrica dismessa e in rovina come ambientazione. In quel caso però si trattava di un rifugio momentaneo, sia per il protagonista che per altri personaggi.

In questo romanzo invece ha la funzione di ultima fortezza, come un estremo cul de sac esistenziale. Rimane il fatto che questi luoghi mi hanno sempre affascinato profondamente. Li ho fotografati molto, e anche se ormai queste vecchie cattedrali sono quasi scomparse da Torino, ne hanno comunque segnato pesantemente la storia.

E a proposito di spazi, in che rapporti sei con la tua città, Torino?

Torino è un luogo di cui sono intimamente intriso. E’ come se fosse una donna con cui vivo da anni. Concordo con Franz Krauspenhaar, quando parla del suo rapporto con Milano, credo proprio in un’intervista con te. Per me è molto simile: a volte detesto Torino, altre volte la amo. Mi permetto anche di parlarne male, ma guai se lo fa un forestiero. Se lo sento…diciamo che c’è un problema.

Lo stile: quali sono le tue prerogative?

Adoro usare poche parole tra un punto e l’altro. Mi piace molto distinguere l’oggettività dei fatti dalle emozioni e dai pensieri. Infatti uso il passato in terza persona per gli avvenimenti, mentre preferisco il presente indicativo in prima persona, scrivendolo in corsivo, per i pensieri dei personaggi.

Cosa senti che è cambiato, nella tua scrittura, dal primo al secondo romanzo?

La differenza più evidente è che vi sono meno descrizioni ambientali. Torino è sullo sfondo della vicenda, non è più protagonista come in In perfetto orario. Questo era però necessario per rendere meglio la particolare vicenda de La gabbia dei matti. Poche “fotografie ambientali” e molti dialoghi.

Com’è l’ambiente cultural-letterario italiano? Ti sei inserito con disinvoltura o tieni le distanze?

Ho conosciuto personaggi molto interessanti, che hanno qualcosa da dire. In genere queste persone sono aperte, corrette, sincere. Amano scambiare impressioni, idee, coinvolgermi in progetti. Poi c’è anche chi se la tira e basta, che fa pesare tutto come una concessione regale. Io mi butto con i primi, mettendoci entusiasmo e voglia di imparare tutto quello che posso.

Progetti?

Il seguito di In perfetto orario. Mi manca terribilmente Werner Hartenstein, ma ho intenzione di farlo evolvere umanamente. Non desidero che diventi l’ennesimo personaggio seriale sempre uguale a se stesso.