La storia è risaputa: quando sei andato avanti, sequel dopo essere ricaduto nel vizio, (mettiamola così…), remake, puoi sempre tornare al prima dell’inizio, prequel.

Da Il pianeta delle scimmie, portatore di uno dei più bei twist-ending di sempre (spiaggia, quel che rimane della Statua della Libertà, urlo… e i quattro episodi successivi tra il '68 e il '73 assieme al remake di Tim Burton nel 2001, la storia si riavvolge ed ecco questo L'alba del pianeta delle scimmie, di Rupert Wyatt.

Accolto nella stragrande maggioranza dei casi positivamente per lo più per la valenza metaforica che pare abitarlo (ci mancherebbe, giacché sci-fi e horror sono i generi cinematografici più metaforici che esistano…), valenze che spaziano dai limiti della ricerca scientifica sistematicamente violati in nome del profitto a costo di scatenare pandemie inarrestabili, alla lettura dello scimpanzé come diverso (migrante, sradicato, sfruttato…), ci permettiamo, con modestia di sempre, uno stop (senza go…).

Già, perché al di là della confezione agile e veloce e del ritmo incalzante, la storia (una comunità di scimpanzé che resi intelligenti oltre misura da un farmaco di nuova generazione mirato alla cura del morbo di Alzheimer si ribellano al loro destino di cavie…), non soltanto non è nuova, ma esagera, nel tratteggio di colui che dà l’abbrivio al tutto, ossia lo scienziato capo Will Rodman (il lanciatissimo James Franco…) quanto ad agiografia, facendone un piccolo eroe senza macchia e con un po’ di paura che assiste alla vicenda con l’espressione di chi è capitato lì per caso e sorvolando alla grande su qualsiasi responsabilità a lui attribuibile

Si assiste al tutto pensando di continuo agli scimpanzé di Kubrick (questi ultimi senza Mocap…), quelli di 2001: Odissea nello spazio, il che sta a dire “guardare un film e pensare ad  altro” (un “altro” film).

Brutto segno…