Tenere a mente il nome di Andrew Dominik, tenere a mente il nome di Andrew Dominik, tenere a mente il nome di Andrew Dominik…

Chissà se tre volte possono bastare per tenere a mente il nome di Andrew Dominik. Film lungo L'assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford, centocinquantacinque minuti che fanno due ore e trentacinque, ma anche corto se è vero come è vero che il girato ammontava a ben cinque ore e diverse vicissitudini produttive ne hanno ritardato di due anni l’uscita. Eppure, nonostante la mannaia abbia picchiato duro, stavolta il convento passa parecchio da vedere e su cui riflettere. Cosa passa il convento? Anzitutto la convinzione che Andrew Dominik non sia un bluff e che quanto di buono aveva lasciato intravedere con il disturbante Chopper è tutta farina del suo sacco. Sa come dirigere gli attori tanto per cominciare, visto che nel già citato Chopper Eric Bana viaggiava lungo tutto il film tenendo ben presente, quanto ad immedesimazione nel ruolo, la lectio magistralis di De Niro in Toro Scatenato, mentre stavolta tocca a Brad Pitt dare all’ennesimo Jesse James dello schermo (prima di lui Henry Fonda e Robert Wagner…) tutto il carisma di un fuorilegge con un’interiorità vista poche volte addosso a qualcuno, interpretazione che gli è valsa la Coppa Volpi a Venezia 64. Non gli è da meno Casey Affleck (fratello di Ben…), nel complesso addirittura più bravo di Pitt nei panni di Robert Ford, colui che dopo tanto corteggiare, rimasta inappagata la sua richiesta di asilo affettivo il 3 aprile 1882 “fa fuori” il fuorilegge dei fuorilegge. Domininik è perfettamente a suo agio anche con la pagina scritta (sua la sceneggiatura), così che a reggere bene è la storia stessa che scava più sulle menti che sulle gesta criminali (una rapina notturna al treno è il massimo concesso…), menti che non possono fare a meno, visti i loro assetti divergenti, che rimanere estranee l’una all’altra: da una parte un fuorilegge che non sa rispecchiarsi in nessuno altro se non in se stesso, meglio ancora nel mito di cui si nutre e che per primo ha contribuito a crearsi ad iniziare dall’indomani della sconfitta del Sud nella Guerra di Secessione erigendosi a paladino del Sud stesso, dall’altra chi a quel mito si avvicina con circospezione ma anche con incosciente spavalderia, chi all’ombra di quel mito cerca la posizione migliore per catturare un gesto, uno sguardo, una frase, chi insomma cerca in tutti i modi di strappare a quel mito un brandello di luce seppure riflessa così da illuminare il cono d’ombra in cui vive. Quando poi la misura si fa colma e la vita di chi è sempre due passi indietro al mito stesso diventa ancor più grama, non rimane che spegnere quel briciolo di luce, ma solo e soltanto per accorgersi che quella luce appena spenta preme per essere accesa di nuovo perché il pubblico, proprio come un bambino, vuole di nuovo quello che già sa e fa niente se non siamo più in casa del bandito ma sulle tavole di un palcoscenico; quella luce, volta dopo volta, sera dopo sera, va di nuovo accesa e di nuovo spenta e così per ottocento volte (il numero di repliche che la messa in scena teatrale dell’uccisione di Jesse James da parte dello stesso Robert Ford raggiunse negli anni successivi alla morte del bandito…) finché qualcuno giungerà a spegnerà la sua.

L'assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford dice molto sui sottili e perversi meccanismi che si instaurano tra mito e fan, meccanismi che si nutrono di squilibrio, gelosia, rabbia, invidia, e al contempo dice molto anche su come altri meccanismi, che fanno di un evento cruento uno spettacolo, non siano frutto dell’oggi ma provengano in realtà da lontano (vedi il pellegrinaggio alla casa del delitto, il cadavere di Jesse James mostrato in pubblico, precursore di tanti altri cadaveri illustri, le foto del suo cadavere riprodotte all’infinito…). Ma se si trattasse soltanto di questo saremmo dalle parti di un saggio di sociologia. Invece, non dimentichiamolo, siamo al cinema, anzi “dentro” il cinema, in un luogo dove con il suo incedere maestoso L'assassinio di Jesse James… in ogni sua immagine, in ogni sua sequenza, dice molto sul cinema stesso, precisamente su un’idea di cinema vitale come non mai e proprio perché vitale capace, anche alle prese con un genere fortemente codificato come quello western, di saperne rileggere i confini stessi, sfrondandone i riferimenti, sfumandone i contorni anche grazie al mirabile lavoro sulla fotografia di Roger Deakins molto centrato sulla messa a fuoco e sulle sfocature (non poche sequenze giocano su tale contrasto). Ne esce un film che per sguardo e per le direzioni che questo assume può essere assimilato senza dubbio ai lavori di Terrence Malick da un lato e a quelli di Michael Mann dall’altro, due maestri insomma. Dominik, in quanto allievo, è alle prese con quel compito al quale nessun allievo può sottrarsi, quello di cercare di superare il maestro. Auguri.

L'assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford: forse il miglior film dell’appena trascorso 2007…