Ritorna il “Maigret greco”, secondo l’usurata formula giornalistica che, oltre a non dir nulla, lo dice pure male.

Perché, com’è noto (questo è il quarto romanzo tradotto in Italia della serie dedicata al commissario ateniese), Charitos è sposato sì, come il suo omologo parigino, ma sua moglie Adriana è ben più presente e pressante della signora Maigret: non solo non si limita a preparare gustosi manicaretti locali, ma a suo tempo ha generato col marito una figlia, Caterina, che qui, conseguito il suo dottorato in legge, si avvia a diventare un futuro pm dopo un’angosciosa vicenda di terrorismo. Ed è vero che Charitos ha i suoi aiutanti Vlasòpoulos e Dermitzakis che ricordano i mitici ispettori di Quai des Orfèvres, ma il rapporto col suo superiore Ghikas è molto più complesso che in Simenon (Maigret opera sostanzialmente con le briglie sciolte) e l’ambiente in cui si svolgono le sue indagini è ritratto con maggiore asprezza rispetto alla placida provincia francese o ai sordidi quartieri parigini.

Infatti anche qui Petros Markaris non si lascia sfuggire l’occasione per colpire, contemporaneamente, tre piccoli o grandi mali che affliggono la Grecia contemporanea: il ritorno di un pericoloso nazionalismo, venato di religiosità integralista ortodossa; la conquista da parte della pubblicità delle più grandi reti radio-televisive nonché di molti quotidiani; il malinconico “day after”, una volta passata la sbornia olimpica del 2004.

Il primo problema è quello che dà il via al dirottamento di un traghetto su cui viaggia la figlia di Charitos; mentre come poliziotto è impegnato ad Atene in una serie di omicidi che maturano nel mondo dei pubblicitari, come padre trepidante e a rischio ictus, segue, sia a Creta sia nella capitale, le fasi del dirottamento: dalle richieste dei terroristi (in sostanza l’impunità per i greci che hanno combattuto con i Serbi contro i Bosniaci nella mattanza jugoslava) alla liberazione degli ostaggi. Tutti sembrano dare in questa occasione il peggio di sé: il dirigente dell’Antiterrorismo Stathakos, emula inutilmente movenze e abbigliamento del Rambo cinematografico; i ministri cercano di soffiarsi il merito della positiva soluzione; i giornalisti tv seguono come mandrie assetate di sangue e/o di notizie le indicazioni che piovono dall’alto, continuando a trasmettere senza posa le loro assurde dirette infarcite di pubblicità.

Uno dei pochi aspetti positivi della vicenda per Charitos, che può riabbracciare la figlia incolume ma sotto shock, è un rapporto più amichevole e disteso col suo capo Ghikas dal quale lo hanno sempre diviso l’assenza di ogni carrierismo e l’indisponibilità ad adattarsi a qualsiasi ordine venuto dall’alto.

L’assassinio dei pubblicitari è il secondo tema del libro: qui la posizione dell’autore si fa più ambigua. Né lui né il suo eroe amano questo mondo globalizzato, omogeneizzato, plastificato: e la pubblicità non è certo l’ultimo degli imputati di questo andazzo. Ma le modalità con cui questo inedito serial killer (i cui complici costituiranno una sorpresa per il lettore meno smaliziato) uccide attori di spot e giornaliste regine della pubblicità occulta non possono essere condivise: rimane però quel retrogusto amaro che ci fa comprendere come certe posizioni reazionarie, che affondano per di più le radici nel passato autoritario della Grecia contemporanea, possono, fino a un certo punto, essere condivise da sensibilità assai differenti: ricordiamoci che lo stesso Charitos, pur non manifestando particolari tendenze politiche e/o ideologiche, ha tra i suoi amici più cari un ex oppositore comunista del regime dei colonnelli, Zisis.

Sul declino della Grecia postolimpica (il traffico che ritorna ad essere un mostro ingovernabile, alcune strutture abbandonate all’incuria e ai vandali) Markaris va invece con mano leggera, ma d’altra parte è abbastanza comune nella sua narrativa l’ironia sottile, ma continua su un paese che cerca disperatamente di rincorrere i modelli consumistici occidentali più spinti, ma che, vuoi per tradizione vuoi per pigrizia tutta mediterranea, molto spesso sembra affastellare senza soluzione di continuità vecchio e nuovo senza mai sostanzialmente mutare.

Ma se questi tre punti di attacco costituiscono il piatto forte del romanzo (assieme a qualche personaggio ben delineato come il giornalista Sotiròpoulos o a qualche innocua mania del commissario Charitos – il suo eterno caffè greco “dolcebollito” o la consultazione del Dimitrakos, dizionario greco dall’effetto rilassante), tuttavia la storia principale mostra qualche falla nelle motivazioni del serial killer e del mandante; delusione parzialmente compensata da un finale eterodosso dove Charitos si permette un piccolo ruolo di giustiziere non facendo arrestare la mente criminale che stava dietro ai delitti.

La lunga estate calda del commissario Charitos (ma chi è quel redattore che si è inventato un titolo troppo simile a un giallo del nostro Luigi Guicciardi, La calda estate del commissario Cataldo?) è dunque un romanzo pieno di promesse, anche se non sempre mantenute: in ogni caso rimane una bella pietra miliare di quel noir mediterraneo (la Barcellona di Vázquez Montalbán, la Marsiglia di Izzo, la Sicilia di Camilleri, la Atene, appunto, di Markaris) a cui fa cenno, nella prima di copertina, lo stesso Camilleri. 

Voto: 7