In attesa di una nuova avventura del commissario Charitos, creatura nata dalla penna di Petros Markaris, ci possiamo consolare con alcuni racconti che lo vedono protagonista di una raccolta che porta il titolo molto esplicativo del periodo che abbiamo attraversato e, in parte, ancora viviamo, cioè “Quarantena”, edito da La nave di Teseo, per la traduzione della sua “voce” italiana, Andrea Di Gregorio.

Sono sette racconti, dai quali si evince, innanzitutto, che i problemi creati dalla pandemia sono uguali in tutto il mondo, diviso tra chi accetta liberamente di essere vaccinato e chi no, chi trova eccessive le misure di prevenzione e chi le trasgredisce, chi le segue ma le sopporta mal volentieri facendosene una ragione (è la posizione di Charitos, che preferirebbe avere mani libere nelle indagini già di per se difficili) e chi le segue pedissequamente per la paura di essere infettato, fino a rinunciare a vivere. Poi ci sono quelli che credono che la pandemia, il virus, sia tutta un’invenzione di un potere sovranazionale, mondiale, una sorta di Spectre, messa in giro per controllarci meglio, magari iniettandoci col vaccino dei microchip per tenerci in loro pugno, ed altri che deliberatamente si adoperano, per vari motivi, per infettare gli altri. E intorno a questi personaggi che si scatena la fantasia di Markaris con storie in cui, però, lo scrittore non trascura mai l’aspetto umano del colpevole di turno.

Prendiamo il racconto principale della raccolta, il più lungo, quasi un romanzo breve, intitolato “Mi chiamo Covid e uccido”. E’ la storia di un uomo, indubbiamente uno psicopatico, che comincia la sua carriera di killer uccidendo un noto infettivologo televisivo (anche in Grecia vanno di moda). L’assassino non si nasconde, anzi, invia una lettera a Charitos, firmandosi “Il Covid che uccide” nella quale non solo spiega le ragioni del suo gesto ma lascia libera la polizia di rendere pubblica la sua lettera. Il movente è il terrore che questo infettivologo trasmetteva al vasto pubblico televisivo con le sue dichiarazioni e a lui, in particolare, contagiato dal virus. Scrive nella sua lettera l’assassino che lui se ne stava in isolamento abbastanza tranquillo, dividendo l’appartamento con un suo amico, a sua volta contagiato, quando all’ora del telegiornale appariva questo infettivologo che, da subito, si metteva ad alimentare il terrore con le sue opinioni e lui, l’assassino, piombava nel panico: “Era come se gli avessero detto:’ ci sono infinite malattie. Puoi scegliere quella che preferisci. Attento, però, a non morire del coronavirus che ti fa compagnia. E se proprio non vuoi morire, puoi continuare a vivere come uno straccio”. Così ha deciso di farla finita con quello spargitore di terrore, per non sentirlo più.

Lo stesso uomo poi commette altri omicidi: la successiva vittima è un giovanotto no vax che in una manifestazione dichiarava che il virus non esisteva, che era tutta una invenzione, e allora lui l’omicida, con tanto di virus addosso, s’infiltra tra quei dimostranti per far vedere che il virus – da lui stesso metaforicamente incarnato – esiste, eccome, tanto da darsi da fare per infettare coloro che sono andati alla manifestazione dell’agitatore no vax. Quindi passa a un volto famoso della televisione. Nel solito messaggio di rivendicazione del delitto, l’assassino dichiara: “Ogni mattina accendevo la televisione e si scatenava la bufera: prima i medici, poi i politici, quindi i sindaci e i dirigenti dell’Organismo nazionale per la salute. E tra di loro c’era una specie di gara macabra a colorare gli avvenimenti dal nero al nerissimo e dal nerissimo al catrame. Dopo alcuni giorni, ho capito che mi trovavo di fronte a una vera e propria organizzazione terroristica, solo che non utilizzava pistole e kalashnikov, ma pistole e kalashinikov erano il terrore che seminava. Alla fine della giornata ero paralizzato dal panico e non chiudevo occhio per tutta la notte”.

Sono riflessioni che indubbiamente molti di noi hanno fatto, influenzandone i comportamenti, in alcuni quasi a fare della paura stessa una malattia. Tant’è che Charitos ha quasi comprensione, e compassione, per quest’uomo a cui darà la caccia attraverso una serrata indagine che è l’intreccio del racconto.

Non meno di questo, anche gli altri racconti ambientati al tempo della pandemia, hanno questa importante valenza di riflettere sui problemi posti, oltre che dal virus stesso, dagli aspetti comunicazionali, sui quali si è poco riflettuto, generando confusione, dubbi, paure, fazioni, odi e spaccature che risultano più deleteri sulla società nel suo insieme del virus stesso. Markaris, in questo senso, con i suoi racconti ha strappato il velo dell’ipocrisia, mettendo in luce attraverso la disperazione dei suoi assassini, i danni che il terrore alimentato dagli organi ufficiali preposti e dai media provoca nei cittadini, portandone alcuni, i più deboli e influenzabili, a reazioni le più diverse, quando non estreme.