E’ una storia di vita e malavita, questa raccontata da Michele Serio nel suo ultimo romanzo edito da Dario Flaccovio La dote. Una sorta di sceneggiata senza troppo sangue schizzato sulle pareti, e con tanta rassegnazione al posto delle lacrime versate. Il tutto articolato nella miglior tradizione napoletana (e forse si sente il passato di autore teatrale dello stesso Serio) con i personaggi che si muovono su un ideale palcoscenico posto in mezzo ai vicoli partenopei (vico Alabarde per la precisione), tra case popolane in mezzo alle quali campeggia come un sole a illuminare l’esistenza un grande stemma di famiglia (su cui è raffigurato un montone infuriato… “non si riesce a capire se vuole caricare un nemico o montare una femmina”) a dare lustro alla memoria di una generazione nobile ormai rappresentata solo più da un ultimo erede, Crescenzo, (forse) un po’ demente. E via via gli altri personaggi, compari e cumparielli, guappi e guagliuncelli con la voglia di far carriera nel mondo del crimine ma al tempo stesso incapaci di uscire dal guscio protettivo della propria strada di appartenenza, e di superare la linea di confine posta di mezzo tra loro e la vita. Riti di obbedienza, potenti, traditori e falliti. Questi gli altri ingredienti di uno spaccato di società napoletana dal sapore uniforme, ammantata da un colore nero, denso, senza sfumature, dove la soglia “tra legale e illegale si è sempre rivelata piuttosto labile.” Patti, pentiti, tradimenti, vendette e alleanze. Ovvero efferatezze all’ordine del giorno. E voglia di onore e di rispetto distribuito a piene mani. Ma anche tanta abilità nell’essere maldestri. Soprattutto quando arriva il momento della sfida. Perché è proprio attorno ad una sfida che ruotano gli avvenimenti. Don Pasquale e Gegè (per amici e nemici Bruce Lee che gira con uno schiaccianoci in tasca per fare del male al prossimo e per esaltare le sue doti maschili) vogliono conquistare il culo di Maria, simbolo di un improvviso potere. Anzi “un dio di culo”. Di cui la stessa ragazza non si era mai resa conto, una dote vera e propria sbocciata così, sui due piedi, e che la fa sentire dalla sera alla mattina meno sola nei suoi anni adolescenziali, più ammirata e desiderata. Ma il suo ben di dio, è anche fonte di terrore per il rischio di violenze cui va incontro, senza più potersi fidare di nessuno. Un dolce e angelico fondoschiena che provoca sguardi tra gli uomini di tutte le età e invidie tra le donne, e diventa possibile merce di scambio in famiglia per onorare la propria sopravvivenza e il proprio stomaco. Quindi l’obiettivo ultimo per i contendenti è possedere Maria. E i due si mettono in pista per una rincorsa con il tempo, prima che il “fiore odoroso diventi marcio”. In questa breve corsa tra i rivali c’è tutto lo spazio per veder consumarsi efferatezze di ogni tipo, trascinando i due guappi quasi all’ultimo stadio della degenerazione umana. Pregio del romanzo sta nel fatto che, anche quando tutto ciò viene narrato senza nulla nascondere, e quando il sesso viene buttato in faccia al lettore nel suo aspetto più crudo, nulla è mai rappresentato nella sua morbosità, anzi sempre stemperato da uno stile fluido ed elegante, e da una capacità di ironia messa in campo dall’autore capace di riportare sempre al giusto equilibrio il dramma rappresentato. Sarà il finale a ricomporre i tasselli del mosaico. Sarà la riscossa a riportare dignità e iniquità al posto giusto, e la “vita” potrà assegnare i nuovi posti a tavola, premiando i “buoni” e con la punizione dei “cattivi”. E quando il sipario sta per chiudersi manca solo l’inchino dei protagonisti a salutare il commosso e divertito pubblico plaudente.