Dopo Sa morte secada (semifinalista al Premio Scerbanenco), Nicola Verde giunge al secondo romanzo con Un'altra verità, sempre con protagonista Carmine Dioguardi, maresciallo dei carabinieri, personaggio che pare uscito dalle pagine di Leonardo Sciascia.

E già questo non è poco.

E i riferimenti e le suggestioni che saltano fuori leggendo il libro non finiscono qui e non sono solo letterarie. L'atmosfera potrebbe essere quella di una sceneggiatura a metà tra Non si sevizia un paperino di Lucio Fulci e C'era una volta il West di Sergio Leone, una fusione immaginaria con meno morbosità rispetto a Fulci e meno epicità rispetto a Leone, ma con quella malinconia scientifica tipica di certi cortometraggi di Vittorio De Seta (Banditi a Orgosolo su tutti, da vedere NdA).

Un romanzo di frontiera insomma, in cui il West mitologico viene sostituito dalla Sardegna, un "terzo sud" dopo lo stivale meridionale e la Sicilia, in cui una società arcaica fa i conti con l'industrializzazione (siamo nel 1969, per intenderci: l'uomo va sulla Luna e in Italia scoppia il caso Lavorini, un bambino assassinato che divenne strumento massmediatico).

Una specie di contrasto tra il dionisiaco e l'apollineo in cui l'estetica smette di esistere e lascia spazio all'antropologia e alla sociologia. Nessun filosofo dai mustazzi imponenti, per carità. Bacco, o forse meglio Iaccu, è un dio stanco e Apollo veste giacca e cravatta, se ne sbatte dell'arte, e guida cordate di zecche sotto forma di industriali e politici senza scupoli.

Un'altra verità è scritto bene, esplodendo i punti di vista e la cronologia della narrazione. A volte Verde si dilunga un po', prendendosi tutto lo spazio di cui l'atmosfera ha bisogno e forse un po' di più.

Ma vale sicuramente la pena leggerlo per conoscere una Sardegna che non ha niente di folkloristico, come sottolinea giustamente Marcello Fois nell'introduzione: "aspettettatevi di tutto, ma non avrete odore di pecorino".