La tua antologia ha un titolo suggestivo: “Le segrete vie del Maestrale”. Perché l’hai scelto?

Innanzi tutto vorrei sgombrare il campo da ogni fraintendimento. Il mio “Le segrete vie del Maestrale” non è un’antologia nel senso stretto del termine, piuttosto un corpo unico composto da cinque parti, cinque indagini. Sappiamo bene, infatti, che un maresciallo dei carabinieri non è mai impegnato su un fronte unico. Ed è quello che capita al mio Carmine Dioguardi. Prendo in prestito la definizione che è stata data al libro: “quasi romanzo”. Mi pare più calzante.

E vengo alla tua domanda, sul perché del titolo.

Il Maestrale è il vento sardo per eccellenza. Nasce freddo e carico di umidità, per poi trasformarsi in un vento relativamente secco, per poi tornare a caricasi d’umidità, quasi mutasse la sua natura. Perfetta metafora, dunque, del mio maresciallo che, come personaggio, ha la pretesa di cambiare (in meglio, spero) le sue opinioni, che sono quelle allora ricorrenti, nei confronti della Sardegna e dei sardi. Pregiudizi per lo più.

Non solo. Il vento suggerisce l’idea di uno sparpagliamento, un raccogliere e uno spargere di cose lungo il suo percorso. E tra queste “cose” ci sono le chiacchiere di paese, le favole, le leggende. Le storie, insomma.

Un’immagine che mi è piaciuta molto per dare il titolo al mio libro.

 

Va bene, cinque storie, quindi, che hanno molti fili conduttori con uno prevalente: la Sardegna arcaica, madre di personaggi simbolici e terreno fertile per riti cruenti. Ed proprio questa arcaicità che si percepisce accanto a una modernità che incombe. Tutte le tue storie  sono ambientate sul finire degli anni ’60. Perché questa scelta?

Anche in questo libro, come in quelli che l’hanno preceduto, mi piaceva parlare della “trasformazione”. E qui torniamo, almeno in parte, al titolo, al vento, e alla mia risposta precedente. Quello che, in un certo senso, mi premeva raccontare era di quel passaggio da un mondo antico e quello nuovo in una regione, la Sardegna, appunto, che ne sembrava immune, quasi fosse refrattaria a ogni novità, tant’è che Lilliu, il più importante archeologo di quella terra, definì questa peculiarità: “costante resistenziale sarda”. Dico “sembrava” perché poi, inevitabilmente, anch’essa è venuta meno. E i primi scricchiolii cominciavano ad avvertirsi proprio in quegli anni. Spero di aver colto il preciso momento in cui tutto questo avveniva.

Si badi bene, non è nostalgia la mia, o almeno non è soltanto quella. E’, più semplicemente, una constatazione, un prendere atto. E quando si verifica un cambiamento ciò che c’era prima, dopo non c’è più. E’ una perdita definitiva. Nel bene e nel male. E la prima storia del mio libro “Può morire un genius loci?” dice proprio questo: Dioguardi chiede alla moglie Ines se lo spirito infestante quei luoghi, sfrattato dalla modernità, potrebbe trovare “alloggio” da qualche altra parte, e lei, col pragmatismo tipico delle donne, gli risponde di no, che in questo caso può soltanto morire. E’ un po’ il succo di tutte le mie storie. Una trasformazione che è pure una perdita.

Veniamo ai personaggi: il tuo maresciallo Dioguardi è uomo che intervalla agli interrogatori molte riflessioni sui fatti e sulle persone. Più che i dialoghi, sono i silenzi che contribuiscono a rendere l’atmosfera.  Un personaggio “intimista” e problematico, decisamente originale. Come è nato?

Luigi Bernardi, che è uno dei miei due mentori (l’altro è Gianfranco De Turris), una volta mi disse che i miei romanzi gli piacevano non soltanto perché avevano una loro “voce”, ma anche perché ponevano domande, piuttosto che dare risposte.

Una definizione che mi piacque molto. Io credo che il sale della vita siano proprio le domande. Incarnano la curiosità. Le risposte, nella vita, sono proposizioni subordinate, le domande quelle principali.

Dioguardi è un personaggio nato dalle mie domande. E si muove ponendosele. E’ un uomo che d’improvviso s’è trovato a scontrarsi con una realtà che non gli appartiene, che gli è diversa. E cerca di capire. Non si sottrae rimanendo fermo in quelle sue convinzioni che sono dei cliché. E’ un uomo a cui più che il “come” e il “chi”, interessa il “perché”. Nel senso interrogativo, naturalmente. Flannery O’ Connor diceva: “La buona narrativa si occupa della natura umana”. Ecco, io credo che questo sia il miglior punto di partenza per scrivere storie.

 

Un lungo racconto, “Hechizera”, pubblicato su M rivista del mistero, Alacran edizioni, mi ha molto affascinato. E’ una storia diversa da tutte le altre. Lo spunto è un processo per stregoneria del Sant’Uffizio nella Sardegna di fine XVI secolo. La storia antica si interseca con un mistery, in una continua alternanza di piani narrativi. Ce ne puoi dire di più?

Hechizera! (strega o fattucchiera in castigliano, la lingua della Santa Inquisizione spagnola) è un racconto nato da una richiesta di Gianfranco De Turris. L’antologia doveva raccogliere racconti i cui investigatori si sarebbero dovuti occupare di misteri (non per niente, infatti, s’intitolò: “Investigatori dell’ignoto”). Proprio in quei giorni stavo leggendo un libro che era la fedele ricostruzione, anche attraverso documenti originali, di uno dei pochi processi a una strega intentato in Sardegna dalla Santa Inquisizione. E’ stato quasi inevitabile che il mio racconto trattasse l’argomento.

Nella mia storia c’è una fantomatica “Commissione per la fortificazione dei fondamenti della dottrina”, costola della “Congregazione per la dottrina della fede” che, nella realtà, altro non è che la passata Santa Inquisizione. L’uomo della mia storia che ne fa parte, è un piccolo ricercatore: deve passare a setaccio quei fatti che vanno sotto il nome di “sovrannaturali” o che contengono, comunque, un fattore misterioso e passarli alla “Commissione”. Notizie che legge sui giornali o sulle riviste, o che ascolta per radio o televisione. Un po’ come accadeva (e forse accade ancora, non so) nella CIA (chi non ricorda “I tre giorni del condor”?). Lo scopo della “Commissione”  è quello di dividere il grano da loglio, e cioè i veri fatti sovrannaturali dalle mistificazioni o da quelli che, più semplicemente, in virtù delle nuove scoperte, tanto misteriosi non sono più. E questo per prevenire ogni possibile attacco alla Fede. I fatti di cui si occupa, quindi, possono appartenere al presente, come al passato. La mia storia parte da un lontano passato per approdare a un presente più o meno vicino.

L’alternanza dei piani temporali è una tecnica di scrittura abbastanza usata in questi ultimi tempi, a me è sembrato che venisse buona per quello che avevo da raccontare.

 

E veniamo, infatti, alle strutture. Che importanza ha per te la struttura in una storia?

La struttura è certamente una parte importante della scrittura. Per me al punto che della prossima storia che vorrei scrivere (semmai lo farò) so soltanto che sarà un noir e che avrà, appunto, una certa struttura. Nient’altro. D’altronde, se immaginiamo la scrittura come un edificio, alla parola “strutture” ci viene immediatamente da associare quella di “portanti”, per indicare le parti che lo tengono all’impiedi. Ecco, la struttura, se vogliamo, è l’impalcatura che tiene all’impiedi la storia, il narrato.

Ed è importante nella misura in cui tutto quanto è già stato narrato e raccontato (qualcuno azzarda addirittura fin dai tempi della Bibbia) e niente altro potrebbe esserlo se non attraverso modalità diverse.

A questo proposito ci sono un paio di massime che potrebbero dirla lunga, una è di Goethe: “Tutti i pensieri intelligenti sono stati pensati, occorre soltanto tentare di ripensarli”. L’altra è di Proust: “Il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi”.

Ecco, io credo che tutto si comprenda nelle parole di questi due grandi scrittori

 

Il tuo percorso di scrittore è caratterizzato dal cambiamento. Dalla fantascienza all’horror, poi al noir “antropologico”, al  mainstream e al mistery. Cosa c’è nel futuro letterario di Nicola Verde?

Qual è il mio futuro? Bah, non saprei. Di una possibile storia dalla struttura particolare, ho già detto. Per il resto, poche idee e, per fortuna, confuse. E non è una battuta. Averne poche significa non disperdersi, e averle confuse significa essere costretto ad approfondirle. 

Ho appena finito di scrivere un romanzo ambientato a Roma e dintorni nel 1955. Ancora una storia che si rivolge al passato (idiosincrasia per il presente?), ma non più la Sardegna, né il maresciallo Dioguardi. Però di nuovo un noir (anche se mi giungono voci piuttosto deprimenti sul suo attuale stato di salute). Prende spunto da un fatto realmente accaduto in quell’anno e che è passato alla storia come “la decapitata di Castelgandolfo”. Io, per evitare ogni riferimento, visto che la mia è una storia “dalle poche verità e dalle molte menzogne” e con quel fatto, alla fine, non ha quasi più niente a che spartire, ho inventato sia il nome della vittima che quello del paese. Con in più la figura di un commissario piuttosto torbida. Ma ad esserlo, in verità, lo sono un po’ tutti, compresa la vittima.

Anche qui, naturalmente, è preponderante la struttura. Leggere per credere.

E poi? Boh! Una storia Western, come ha suggerito ironicamente Luigi Bernardi, decretando la fine del giallo/noir? Ma io il mio West l’avevo già trovato. La Sardegna degli anni in cui ha operato il mio Carmine Dioguardi, non era forse una terra di frontiera?

 

Ringrazio Nicola Verde. per la pazienza e disponibilità e …alla prossima pubblicazione