Nella Bibbia, Genesi, capitolo 11, 1-9, si narra di una torre (in mattoni) costruita nel Sennaar (in Mesopotamia) da uomini intenzionati ad arrivare al cielo e quindi, a Dio. Ma questi creò scompiglio nelle genti e, facendo sì che le persone, prima accomunate dalla stessa lingua, parlassero lingue diverse e non si capissero più, impedì che la costruzione della edificio venisse portata a termine.

In Babel, nuovo film, passato con successo a Cannes, del talentuoso cineasta messicano Alejandro González Iñárritu, sceneggiato come i precedenti Amores perros e 21 Grams dal romanziere Guillermo Arriaga (autore anche dello script dello splendido Le tre sepolture, opera prima di Tommy Lee Jones), le lingue babeliche che si mescolano, senza mai comprendersi, sono il giapponese, l’arabo, l’americano, lo spagnolo e la lingua dei sordomuti. Ma anche la violenza e la volgarità comuni a una certa tipologia di poliziotti; la musica dei "mariachi"; il linguaggio burocratico; i linguaggi contestatari dell’alcol e dell’estacy, propri dei giovani occidentali, e del sesso e delle armi, propri della gioventù musulmana. E questo in tre storie, destinate a incrociarsi solo nel finale, secondo quella narrazione non lineare che costituisce il marchio di fabbrica del regista sudamericano.

Due parole sulla trama. In Marocco, due fratellini pastori giocano con un Winchester, che il padre ha acquistato da un amico. Parte un colpo che colpisce un pullman di turisti, ferendo una donna americana in vacanza con il marito. A San Diego, California, i due bimbi della donna sono affidati a una tata messicana, che li porta con sé a Tijuana per il matrimonio di suo figlio. Rientrando negli USA, in seguito a un equivoco alla frontiera, la loro auto viene inseguita; la donna e i piccoli si perdono nel deserto. In Giappone, l’uomo che in precedenza aveva regalato il fucile di cui sopra alla sua guida marocchina, che a sua volta l’aveva venduto al suo vicino per una somma di denaro e una capra, ha una figlia sordomuta che si comporta da ninfomane perché bisognosa di amore e di affetto. Con lei il padre ha problemi di comunicazione anche perché la madre si è suicidata.

Ma più che il fil rouge dello sparo di un fucile, l’interesse principale di Inàrritu sta tutto nel raccontare, come suggerito dal titolo, quell’incapacità di comunicare che affligge la nostra società. Una incomunicabilità non solo linguistica ma anche culturale, che può essere considerata la causa scatenante di quella insicurezza, di quella condizione diffusa di sfiducia tormentosa, che affligge il cittadino globale. Una insicurezza figlia della consapevolezza dell’incontrollabilità delle scelte e di una grande, a volte insormontabile, difficoltà nella costruzione dell’identità personale. E questa precarietà, sembra suggerirci il cineasta messicano, è destinata ad accentuarsi sempre più in un mondo come il nostro, dove la famiglia tende a disgregarsi molto più facilmente che in passato, mentre i processi di globalizzazione hanno ridimensionato il potere e l’influenza delle nazioni.

Forse per questa ragione, in misura maggiore rispetto ai lavoro precedenti, lo sguardo del cineasta messicano si è caricato di pietas, tanto che in alcuni momenti del film egli sembra addirittura cercare un contatto simpatetico con i suoi personaggi, entrare direttamente nelle loro emozioni e nella loro testa (si pensi alla soggettiva uditiva della ragazzina giapponese evidente nella scena in discoteca, dove il silenzio nella sua testa contrasta con il rumore oggettivo della musica a tutto volume). E da qui forse la scelta di attorniare le star Brad Pitt, Cate Blanchett e Gael Garcia Bernal, di attori non professionisti, lasciati liberi di sviluppare reazioni peculiari a situazioni che possono avere un significato diverso in ogni paese.

È indubbio che la precisione pressoché cronometrica della sceneggiatura, in cui gli eventi sono declinati al fine di esaltare quella humanitas che travalica i legami religiosi, politici o culturali e che rappresenta – è la tesi della pellicola – l’unica ancora di salvezza di fronte a un male assoluto e globale, faccia sì che gravi sul film un certo didascalismo soprattutto nella seconda parte. Analogamente, alcuni snodi dello script e talune drammatizzazioni sono poco convincenti, così come la sorpresa finale non è veramente tale.

Ma Babel regala momenti di grande cinema. Ricordiamo la scena sconvolgente del ferimento di Cate Blanchett nell’autobus; la sequenza straordinaria delle nozze messicane, maestosa e spettacolare nonostante il taglio antropologico con cui è stata girata; la descrizione di luoghi esotici lontana dal bozzetto e dal folklore; la capacità del regista di tratteggiare rapidamente ed efficacemente i personaggi e di alternare stili visivi differenti, dove sequenze oniriche si alternano a forme iperrealiste e documentaristiche (e qui emerge il talento del direttore della fotografia Rodrigo Prieto), alla grande qualità del cast, in cui spicca, oltre alle star hollywodiane Pitt e Blanchett, la cui vicenda ha la funzione di tenere insieme le altre, la straordinaria Adriana Barraza, che fornisce una prova molto toccante nei panni della governante messicana.

Difficile pensare che a questo titolo non venga riservato un ruolo di primo piano nella notte degli Oscar.