L’importante, in letteratura come in musica, è un buon attacco. E Franco Pulcini ha azzeccato il suo debutto narrativo sin dalla prima mossa, quella del “dove”. Il suo giallo musicologico si sviluppa infatti in un utero di lusso, il teatro più venerabile e venerato del mondo, i cui segreti però sono noti solo ai veri connoisseurs. Stupisce che nessuno prima di Pulcini sia riuscito ad ambientare nel mondo del melodramma nostrano un romanzo o una crime story di alto livello, ma a pensarci bene ci vuole il know how, e sono pochi ad averlo. L'autore, noto e stimato musicologo dallo humour spietato, docente di Storia della Musica al Conservatorio di Milano, pluridecennale esperienza divulgativa e pubblicistica, alla Scala è di casa nelle vesti di direttore editoriale, e ha sulla concorrenza un vantaggio incolmabile. Lo sfrutta senza pietà, arricchendo la sua trama, che peraltro conduce magistralmente fino alla fine, con una sequela di chicche per palati fini. Attenzione però: l’arsenale aneddotico di Pulcini non è rivolto ai musicofili, bensì a tutti gli amanti della cultura, della bellezza e (nell’epoca delle sciocchezze spalate via Internet) di tutto ciò che ha senso e merita di restare nel tempo. Amanti di X Factor Isola dei Famosi, lettori di Dan Brown e Fabio Volo, alla larga!

Scena del delitto: la terrazza del teatro. Un giovane e brillante direttore d’orchestra ha fatto il colpaccio: sta per portare in scena nel teatro milanese, l’Arianna di Monteverdi, da secoli creduta smarrita e da lui clamorosamente resuscitata. A un passo dalla Prima, il direttore finisce scannato, con tanto di sangue che cola giù dalle grondaie sul pavé. Facile immaginare l'uragano che ne segue: conferenze stampa roventi, tintinnare di manette, giornali scatenati, staff scaligero in crisi cardiaca. Il fatto è che, secondo gli addetti ai lavori, l’Arianna porta jella. Già, ma sarà poi la vera opera di Monteverdi, o solo un (neanche troppo abile) falso? Eroe e deus ex machina dell’intreccio musical-criminale, che lasciamo al lettore il piacere di scoprire e assaporare, un commissario trendy ma non scontato: il sicilian-arabo Abdul Calì, con un bel ceffo da finto scemo come il tenente Colombo di Peter Falk, e un cervello che mal sopporta le stramberie di quel covo di melomani esaltati. Con sicula e taciturna intelligenza, Calì macina ipotesi dopo ipotesi, e prima o poi il colpevole cascherà nella sua rete – e se credete sia scontato, arrivate alla fine e ne riparliamo. Attorno a Calì si agita il piccolo cosmo raffinato e un po’ isterico della Scala: ugole che stillano veleno, musicologi arrivisti e direttori d’orchestra sopra le righe con tanto di concubina trans. Uno scoppiettante teatro nel teatro, dove il successo di una Prima tutto sommato importa più di un cadavere, e le primedonne (che non sono necessariamente donne) sono disposte ad accoppare pur di continuare a primeggiare, perché la morte alla Scala è di casa. In fondo, ricorda Pulcini, tra quelle sacre mura sono morti perfino direttori d’orchestra nel mezzo delle prove. Dicono che Delitto alla Scala (che ha avuto un bel successo di vendite e ora verrà seguito da un nuovo esperimento narrativo ancora top secret) abbia fatto inarcare qualche sopracciglio e saltare qualche nervo, tra il Loggione e i piani alti del teatro. Logico. Chi lavora al servizio di un mito se ne sente parte. Il gioco sornione di Pulcini invece, che è anche la vera anima del libro, è amare e celebrare, ma anche demitizzare. E se si lavano i panni sporchi in casa, meglio con un po’ di acido muriatico.

Alla fine Abdul Calì metterà i pezzi del puzzle al loro posto, e troverà perfino l’amore. Ma anche se la giustizia trionfa, non c’è tempo per la retorica, la Prima si avvicina! Ad ogni fine stagione la Scala muore, ad ogni Prima rivive. Faites vos jeux, signori, sussurrano le pareti del Sacro Tempio. E anche se nel vostro palchetto scorre un po’ di sangue, beh, fate silenzio: il maestro sta per attaccare.