Negli anni ‘90, vennero pubblicati vari bei romanzi italiani ambientati in Messico e dintorni.

L’affinità di situazioni, personaggi e scenari tra queste opere è marcata ed evidente, nondimeno va sottolineato che in genere, soprattutto nelle opere più riuscite, emerge sempre netta la personalità (stilistica e umana) dei rispettivi autori, per cui anche le vicende narrate risultano sempre differenti per approccio, soggetto e sviluppo.

Tra gli esempi più noti e interessanti di questa nostra “stagione messicana”, ci limitiamo a citarne alcuni: Le Zanzare di Zanzibar di Giancarlo Narciso, Avenida Revolution di Cesare Battisti, Puerto Escondido di Pino Cacucci e, appunto, questo Café Nopal.

La prima uscita di Café Nopal è datata infatti 1997, nella collana da edicola Giallo & Nero, della Hobby & Work. In quell’occasione Alfredo Colitto si firmava ancora con lo pseudonimo Alfredo Sereni.  

La distribuzione in edicola, si sa, se da un lato ha il vantaggio di una grossa diffusione, dall’altro “brucia” i libri in poco tempo. E’ quindi con piacere che, avendo letto a suo tempo questo romanzo, accogliamo la scelta della Alacrán di riproporlo ora in libreria (collana Le Storie, pag. 200, E 12,00).

Il risvolto di copertina sintetizza bene il testo:

"Un nero “on the road” scritto in magica sintonia con la furia profonda di un Messico alieno, enigmatico e mutevole. Una storia romantica e feroce, dove solo l’amore per una donna e il desiderio di trasformare profondamente la propria esistenza, potranno salvare il protagonista."

Dal volume, riportiamo anche il profilo dell’Autore:

Nel 1988 Alfredo Colitto ha deciso di seguire la sua passione per i viaggi cominciando a girare il mondo. Ora vive in Toscana, con la moglie Ana Luz e la gatta Agata. Con lo pseudonimo di Alfredo Sereni ha pubblicato la prima edizione di Café Nopal (Hobby & Work, 1997) e Aritmia Letale (Addictions, 2003). Con il suo vero nome ha pubblicato Bodhi Tree (Crisalide, 2005) e vari racconti apparsi in antologie quali EnoKiller (Morganti Editori, 2005), Killers & Co. (Sonzogno, 2003) e Fez, Struzzi e Manganelli (Sonzogno, 2005). È membro dell’ASB (Associazione Scrittori Bologna) e dell’AIEP (Associazione Internazionale Scrittori di Polizieschi). Inoltre tiene corsi di scrittura creativa a Bologna, e traduce romanzi dall’inglese e dallo spagnolo.

Vi lasciamo ora alla Prefazione (che ci aiuta a capire quanto siamo di fronte a un’opera che nasce dall’esperienza diretta, vissuta sulla propria pelle) e al Primo capitolo di Café Nopal.

Buona lettura.

PREFAZIONE

Café Nopal è ambientato nel Messico del 1988, anno di elezioni, in cui Miguel De La Madrid cedette la presidenza della repubblica a Carlos Salinas De Gortari.

Il 1988 fu anche l’anno in cui, abbandonata ogni speranza di riuscire ad adattarmi a un lavoro fisso, mollai tutto e partii, deciso a vivere di viaggi e di espedienti. Il Messico fu la mia prima meta. Erano anni che sognavo di vedere le piramidi di Teotihuacàn, la Barranca del Cobre, la giungla del Chiapas. Ma non mi adattavo all’idea di una vacanza di due settimane tutto compreso, e i viaggi lunghi non potevo permettermeli: quando lavoravo non avevo tempo, e quando non lavoravo non avevo soldi.

Credevo che non sarei mai più tornato in Italia, invece negli anni successivi ci tornai spesso, a volte anche per parecchi mesi. Ma ormai in me era cambiato qualcosa, e anche in Italia mi comportavo come se fossi in viaggio. Vedevo le cose e le persone con un piacere nuovo, non offuscato dall’abitudine, e riuscivo a godermi la vita senza pensare al futuro.

Avevo già provato a scribacchiare qualcosa, ma senza una vera intenzione. Appunti di viaggio, pensieri sparsi, brevi racconti inconclusi. L’idea di scrivere un romanzo non mi sfiorava neppure. Per vivere compravo ambra, grezza e lavorata, in alcuni villaggi di indios nei boschi del Chiapas, e poi andavo a rivenderla in California. Il tempo in cui avrei indossato giacca e cravatta e mi sarei travestito da rispettabile professore di italiano presso la scuola dell’Istituto di Cultura dell’Ambasciata d’Italia in Messico era ancora lontano. Tra gli indios conoscevo sciamani e curanderos, i quali, tutte le volte che gli chiedevo di insegnarmi le loro arti, mi consigliavano caldamente di tornare nel mio paese e di mettermi a lavorare.

In quel periodo lessi In Patagonia, di Bruce Chatwin. Una frase mi rimase indelebile nella mente: “Anch’io, come tutti gli scansafatiche, volevo fare lo scrittore”.

Capii che avevo finalmente trovato la mia strada.

Pochi mesi dopo, cominciai a scrivere Café Nopal.

 

                                                                                              A.C.

1

 

Attraverso il velo d’acqua che scorreva sul finestrino, Enrico riusciva appena a vedere il portone dell’edificio, a meno di cinque metri di distanza. Piegò il giornale, preparandosi a scendere.

“Sono ventimila pesos”, disse il tassista, frenando e voltandosi indietro. “Vuole aspettare un po’, per vedere se smette?”

Il temporale era scoppiato da dieci minuti, ma le gocce violente che rimbalzavano sull’asfalto avevano già riempito la città di pozzanghere e rivoli d’acqua.

“Sto per andare in un posto dove piove quasi tutti i giorni dell’anno”, rispose Enrico, tirando fuori il portafogli. “Tanto vale che cominci ad abituarmi.”

Il tassista intascò i soldi senza fare commenti. Enrico aprì la portiera e corse verso il portone con la chiave in mano, coprendosi la testa con il giornale. Entrando, si asciugò la faccia alla meglio con una manica della camicia e salì a passo svelto fino al secondo piano.

Appena aprì la porta capì che Blanca se n’era andata.

Lo capì dal silenzio, dalla sensazione di assenza, dall’odore di casa vuota che ristagnava nell’ingresso.

E dall’attaccapanni senza neppure una giacca appesa.

Andò subito in camera da letto. Dentro l’armadio c’erano alcune cose di Blanca. Qualche maglione che non metteva più, un paio di scarpe che non le erano mai piaciute, due camicette di cotone. Niente biancheria.

E ovviamente niente foto appese ai muri.

Enrico andò un paio di volte avanti e indietro per la stanza, troppo stanco per stare in piedi e troppo agitato per sedersi, poi finalmente riuscì a infilare la porta ed entrò nel soggiorno.

Tutti i fascicoli e le carte di Blanca erano spariti dalla libreria. Sul tavolo c’erano le cornici vuote delle foto. Senza bisogno di andare a guardare nel ripostiglio, Enrico seppe che le due valigie rosse non c’erano più.

Sembrava che lei avesse abbandonato la casa in fretta e furia. Enrico pensò all’articolo che aveva appena letto sul giornale. Che fosse stata costretta a fuggire? In un attimo gli sbollì tutta la stizza, sostituita da un moto di paura e preoccupazione. Una fuga improvvisa avrebbe spiegato come mai lei aveva preso tutte le carte e pochi vestiti. Ma le foto?

Se non fosse stato astemio, quello era il momento che Enrico avrebbe scelto per versarsi un whisky, o magari un tequila. Ma qualcosa doveva bere, fosse pure solo un bicchiere d’acqua. Andò in cucina, e solo allora vide la foto sul tavolo. La prese e lesse le poche parole scritte sul retro. Si alzò, prese un bicchiere dallo scolapiatti, e dopo un attimo di esitazione lo gettò con violenza sul pavimento. I pezzi di vetro schizzarono dappertutto. Enrico non ebbe neppure il tempo di stupirsi di quella reazione così atipica per lui. La sua mano si mosse da sola. Afferrò un altro bicchiere e spaccò anche quello. Poi passò alle tazze e infine ai piatti, con rabbia metodica.

Quando non fu restato più nulla, neppure una tazza in cui bere un tè o un caffè, si sedette al tavolo, rintronato dal rumore dei cocci.

Gli venne in mente che c’erano delle cose da fare. A Blanca avrebbe pensato dopo.

Tornò nell’ingresso e telefonò a José, dicendogli che non poteva più partire. L’amico gliene chiese il motivo e lui glielo spiegò.

“Devo scoprire dov’è andata”, concluse.

“Perché?”

Enrico non seppe subito cosa rispondere. “Come perché?” disse poi. “È ovvio. Voglio ritrovarla.”

“Per dirle cosa?”

Enrico restò in silenzio, e José continuò: “Se è andata in un’altra città, non credo che riuscirai a trovarla. Ma anche se è rimasta qui puoi solo sperare che ti cerchi lei.”

“E non mi cercherà. È questo che vuoi dire?”

“Voglio solo dire che per restare qui hai bisogno di soldi. E che avevi accettato di partire per il Chiapas perché sei rimasto al verde.”

La verità di quelle parole affondò piano nella mente di Enrico. Si sedette sul parquet dell’ingresso e sospirò: “Capisco.”

Nei sei mesi che aveva trascorso a Città del Messico, aveva speso quasi tutti i soldi della sua borsa di studio. Il denaro per il viaggio in Chiapas glielo aveva anticipato José, e se Enrico non fosse partito avrebbe dovuto restituirlo, rimanendo, come aveva appena detto l’amico, totamente al verde.

“Se non vuoi partire non è mia intenzione costringerti”, disse José. “Volevo solo…”

“Lo so. Hai ragione. Anche se resto, non ho soldi per sopravvivere fino a quando troverò Blanca. O fino a quando a lei non verrà in mente di cercarmi.” Fissò un punto sul muro, dove fino a quella mattina era stata appesa la foto di una porta sfondata. “L’autobus parte tra due ore e mezza”, disse poi. “Se mi sbrigo dovrei ancora farcela.”

Quando riattaccò prese il giornale zuppo di pioggia, che entrando aveva lasciato sul tavolino del telefono. Gli occhi gli caddero di nuovo sull’unico articolo che gli interessava.

Era la notizia che un altro barista era stato bruciato vivo nel suo locale. Si trattava della seconda esecuzione nel giro di un mese, e la polizia sospettava una guerra tra bande per il controllo del traffico di eroina nella capitale. Era la storia di cui Blanca si stava occupando. L’articolo non era firmato, ma Enrico riconosceva lo stile. L’ironia del fatto che avessero affidato proprio a lei un’inchiesta del genere una volta l’aveva fatta sorridere. A lui invece dava la sensazione di avere un nodo in gola.

Il servizio continuava nelle pagine centrali, ma il giornale gli si disfece tra le mani al primo tentativo di aprirlo. Andò a gettarlo nella spazzatura, poi si mise a preparare lo zaino.

 

* * *

Appena entrato nella Terminal de Autobuses Pasajeros de Oriente, familiarmente detta Tapo, Enrico si fermò a comprare un pacchetto di Delicados in un negozietto, e se ne accese subito una, annegando il senso di colpa nel piacere della prima boccata. Aveva deciso di fumarne solo una e poi buttare via il pacchetto, invece lo sistemò con un gesto automatico nel taschino della camicia, insieme ai cerini. Non era quello il momento di smettere.

Un gruppetto di indios lo superò a passo svelto, scalpicciando a piedi nudi sulle mattonelle di granito. Una delle donne, una ragazzina che poteva avere poco più di quindici anni, lo urtò facendolo quasi cadere, e proseguì senza neppure voltarsi. Era incinta, e portava un bambino piccolo in uno scialle azzurro a tracolla sulla schiena. Tutto il gruppo sembrava fuori posto in quella stazione ultramoderna, ed Enrico non poté evitare di pensare all’effetto che avrebbe fatto lui nella giungla, tra qualche giorno.

Spense la sigaretta e si avviò verso la fila di autobus che aspettava nel piazzale riservato alla Cristóbal Colón, oltre

la vetrata. Se non avesse avuto paura di volare avrebbe potuto risparmiare due giorni prendendo l’aereo fino a Tuxtla-Gutiérrez. Ma secondo quello che aveva detto José, anche così non ci avrebbe messo più di una settimana, tra andata e ritorno. In fondo forse non c’era ragione di preoccuparsi. Mostrò il biglietto all’autista, si sedette al suo posto e abbassò lo schienale, cercando di rilassarsi.

Ma non ci riuscì. Blanca non aveva il diritto di sparire in quel modo. Durante le prime otto o nove ore di viaggio, quel pensiero continuò a tormentarlo, affiorando persino nel sonno. Poi il mal di schiena divenne così forte da non lasciare spazio a nient’altro.