Sarti Antonio, il più popolare sergente della narrativa italiana, è il protagonista di molti dei numerosi romanzi di Loriano Macchiavelli, per citarne solo alcuni: “Sarti Antonio, un diavolo per capello” (1980), “Sarti Antonio, caccia tragica” (1981), “Sarti Antonio, un poliziotto, una città” (1994), “Le piste dell'attentato”, “Fiori alla memoria” e “Ombre sotto i portici”. Ne L’ironia della scimmia (da poco uscito per Mondadori), il questurino è impelagato nella risoluzione di più questioni, prima tra tutte quella legata alla fascinosa Rasputin – detta Ras – e ai misteri ruotanti attorno alla jeep Grand Cherokee che la fanciulla – provetta predatrice di auto – ha rubato al facoltoso imprenditore Giulio Messini, suo fidanzato. Il problema è che nella lussuosa vettura vengono ritrovate due cose che non dovrebbero esserci, e a ciò si aggiunga che il proprietario, ovvero il suddetti Messini soprannominato L’Elegantone, denuncia il furto di un dipinto avvenuto nel suo covo d’arte, un sotterraneo ubicato in quell’antico palazzo pregiato, ex Sampieri, in cui si trova la residenza dello stesso. Un mausoleo di armi e quadri, mobili, suppellettili, anticaglie, candelabri, accostati senza criterio classificatorio ma casualmente, comunque sia un vero e proprio tesoro d’arte. Lì, all’interno di un quadro settecentesco dove perfino la luce è eccentrica perché pare irradiata da un fulcro centrale e dissipata ai bordi in ombra, seduta quasi in sordina e con una posa così umana che scade nel grottesco, la scimmia rubata, dipinta da tal Francesco Malagoli, aveva messo a disagio il sergente Sarti:

“Sono occhi pungenti e ironici. Che siano di una scimmia, lo capisci dopo un poco. Una strana scimmia. Ha l’aspetto più di un uomo che di una scimmia, e il sorriso ironico e gli occhi ti scavano dentro a cercare quello che sei. Ti guarda e ti prende per il culo.”

Da qui il titolo “L’ironia della scimmia”, qui il punto di partenza per un discorso che verrà ampliato e ripreso nella sua complessità, anche perché l’ironia, non quella della scimmia, ma quel sorriso autentico e un po’ saggio sulle vicende della vita, caratterizza per intero questa come altre opere del celebre giallista. Il furto è anomalo: perché i ladri hanno preso un Malagoli e non un Guido Reni, lì presente e molto di più stimato? Rasputin scompare, il mistero si infittisce, ma Sarti non demorde, è un tipo in gamba lui, anche se non vuol esibirsi, uomo dalla memoria acutissima, è uno che “si porta dietro la cultura dell’onestà”, nato con la coscienza, a tratti dilaniato dalla colite forse perché va troppo a fondo nelle cose, ed ecco perché sulle tracce della bella Ras finisce all’Aquila, dove ben presto lo raggiungono  due  tra i riuscitissimi personaggi secondari: Rosas il talpone – col quale Sarti intrattiene una dialettica che rende il loro dualismo complementare – e la Prenotato – che detesta essere chiamata col cognome, per l’appunto.

“Un labirinto di crimini del passato e intrighi del presente, le menzogne della politica e i delitti della cospirazione, una città – L'Aquila – che pare non interessi più a nessuno ma le cui macerie sono lì a denunciare le nostre colpe” recita la copertina, e così è. Ma tutto questo garbuglio, che sembra troppo complicato per Sarti Antonio – al punto che lui stesso verrà interrogato come persona informata dei fatti – si dipanerà portando alla luce le incongruenze e perplessità. Come quelle legate a Samir, fratello di un kamikaze e ora nella lista nera della CIA, o quelle che portano all’individuazione di un numero di telefono e a chiamate verso la Gran Bretagna, nello specifico all’agenzia per la sicurezza e il controspionaggio del Regno Unito. E sopra a tutti i misteri, troneggia sempre lei, la scimmia, sempiterna nella sua sfacciataggine: “So che oggi e domani la scimmia continuerà, con ironia, a illuminare, o a fingere di illuminare il nostro cammino in questo mondo di merda.”

Due paroline sulla Bologna di questo autore che con la città ha un legame fortissimo – è nato a Vergato nel 1934 – e una conoscenza (ma anche coscienza) storica che, tra le pagine, condivide con noi (ma lo fa anche con i libri, penso a “Funerale dopo Ustica” o anche al romanzo-denuncia “Strage” e al suo tormentatissimo iter: uscito nel 1990, il libro è stato ritirato dalla circolazione per ordine dell’Autorità Giudiziaria. Assolto in virtù del  diritto dovere di cronaca, come ha sentenziato il Giudice, è tornato in libreria solo nel 2010 edito da Einaudi, nella collana stile libero big, in occasione del trentesimo anniversario della Strage alla stazione ferroviaria di Bologna). La città di Loriano Macchiavelli non è mai uguale a se stessa, non è mai ripetitiva, mai scontata. In ogni romanzo l’autore ce ne presenta uno scorcio diverso, anche quando i passi del sergente camminano sotto gli stessi portici. E non sono solo gli epicentri medievali del centro storico che interessano la narrazione, come dimostrano le  corpose descrizioni rubate qualche chilometro fuori porta, laddove le prime alture imbrogliano la vista coi loro saliscendi e lo scrittore ci regala sempre un po’ di storia del paesaggio:

“Le colline che a sud fanno corona alla città, quasi a volerla proteggere, digradano, verdi e dolci, sulla piana. I fondatori dell’antica Velzna avevano scelto il posto più idoneo per edificarla: non lontano dalle colline, ma abbastanza per non essere travolta dalle acque dei tanti torrenti che scendevano, in primavera pericolosi, per unirsi al fiume Reno che, sfiorando a ponente l’insediamento, le accoglie in grembo fino al mare”.

Quarantesimo della lunga e felice carriera letteraria di Macchiavelli, scritto con una prosa sciolta e bella per trecento e passa pagine, fatte di descrizioni e azioni e dialoghi avvincenti, questo romanzo conferma  il successo letterario di Antonio Sarti – e con lui del suo autore che, appena ne ha occasione, suggella il legame con la sua creatura mantenendo la terza persona, ma intrufolandosi con l’aggettivo possessivo o come presenza mai ingombrante. E allora non è raro che il sergente diventi “il mio questurino”.