«Avanti, Kveld.»

Il ragazzo che lo aveva fermato lo incitò a impugnare l’ascia.

Kveld fece un cenno di diniego. Suo padre gli aveva proibito ogni cosa che avesse a che fare con i diavoli pagani vichinghi: toccare le loro armi, parlare con la völva, ascoltare le saghe, onorare gli antenati sepolti sulla collina. E lui aveva trasgredito tutti questi precetti.

«Kveld! Kveld! Kveld!» gridarono i ragazzi, in coro.

Kveld impugnò l’arma. Era un’ascia misera, corta, di ferro. Ma il manico era ben intagliato e il legno lucidato a cera.

«Facci vedere» disse il ragazzo più grande, il capo della piccola banda.

Kveld alzò l’ascia al di sopra della testa, come per vibrare un colpo mortale. Gli altri si scansarono, con un grido di paura e piacere.

Ma Kveld proseguì il suo movimento lanciando l’ascia in aria, facendo tre giri su se stesso e poi riafferrandola al volo. Ripeté l’esibizione con l’altra mano, e poi sostituendo alle piroette salti laterali, in avanti e all’indietro, fra le grida e gli incitamenti.

Kveld cominciò a far mulinare l’ascia in un movimento rotatorio, alternando la mano destra alla sinistra. Continuando a mulinarla se la fece passare sopra la testa, al di sotto delle ginocchia. Si piegò in avanti e all’indietro. Più che un guerriero, sembrava un giocoliere che esegue un numero di destrezza. Non c’era vanità in lui: piuttosto un desiderio di farsi amare, di essere perdonato per un talento che non aveva chiesto, e sgomento per quell’arte che fioriva da lui attraverso antiche radici, per l’insondabilità di ogni dono divino o diabolico; e timore di quello a cui lo avrebbe condotto. Danzava senza saperlo, eseguiva i movimenti di un giullare senza saperlo.

I ragazzi assistevano allo spettacolo torcendosi di delizia e d’invidia. Nessuno a Borg, e probabilmente su tutta l’isola, possedeva una simile abilità nel maneggiare quell’arma. Nessuno l’aveva insegnata a Kveld: se l’era ritrovata fra le dita, dalla prima volta che per caso aveva impugnato un’ascia. Era l’eredità di Egill Skallagrímsson.

Si era esercitato in gran segreto, perché quell’esercizio lo faceva sentire immemore, libero da ogni domanda o affanno. Ma i ragazzi del villaggio erano curiosi, lo avevano sorpreso, e amavano guardarlo.

L’ascia lanciata verso il cielo mandava barbagli di luce, e la saga li incantava. Nei loro occhi balenavano visioni, e nelle loro orecchie voci. L’urlo feroce di Egill, la sua carica in battaglia, la morte che aveva inferto. Ma anche il suo splendore, la sua gloria tenebrosa e il timore che incute il divino, quando si manifesta fra i mortali.

Ai loro occhi Kveld diventava Egill, e guardandolo sognavano di essere Egill.

Kveld scagliò l’ascia, e la lama andò a conficcarsi nel bersaglio, tracciato con il fango, sulla porta di una stalla. Poi, rapidissimo, lasciò il gruppo e si incamminò verso casa. I ragazzi non lo avevano mai tradito, e non l’avrebbero fatto neppure questa volta, ma il clamore avrebbe potuto attirare l’attenzione di qualche fedele di suo padre.

Kveld riprese la moneta venuta dal mare, che aveva riposto per avere le mani libere con l’ascia. La portava in una tasca cucita all’interno della giubba, all’altezza del cuore. La tenne nella sinistra, scaldandola con il suo calore. Dopo un po’ cominciò a giocarci, lanciandola e riprendendola al ritmo del suo stesso passo.

In Islanda l’atmosfera era talmente rarefatta da creare illusioni ottiche: tutto quello che al viandante appariva vicino, tanto da poterlo raggiungere in quattro passi, in realtà era lontanissimo. Kveld, con la mente ancora ingombra dei volteggi dell’ascia, fu ingannato dai suoi sensi. Credeva di essere ancora lontano da casa, e invece la fila di costruzioni tutte uguali terminò, e si ritrovò davanti alla chiesa di Borg.

Davanti alla canonica suo padre, Brian di Borg, lo aspettava.

Kveld somigliava a sua madre; ne era quasi la copia. Aveva capelli di un oro chiarissimo che alla luce brillava come argento, e occhi dello spietato blu dei laghi d’Islanda, e della medesima trasparenza insondabile. La pelle era di un candore uniforme, i lineamenti spigolosi e insieme delicati ferivano l’occhio con la loro leggiadria violenta. Dal viso remoto, dal corpo perfetto che avrebbe ispirato un pittore di genio, dal modo di camminare e guardare, traspariva la stessa aerea intensità di un’apparizione.