Sua madre apparve sulla soglia della sacrestia, portando un pane, una brocca d’acqua e bende pulite. Sapeva della scena che era avvenuta in chiesa; sapeva ogni cosa che accadeva in casa sua, specialmente fra il marito e il figlio.

Con la grazia innata in lei, si inginocchiò accanto a Kveld. Gli porse il pane, che lui rifiutò. Non voleva più accettare nulla che venisse da suo padre. Lo aveva deciso nel momento in cui il sacerdote lo aveva storpiato. Neppure il più piccolo pezzo di pane, a costo di morire di fame.

Kveld accettò invece l’acqua che sua madre accostava alle sue labbra, perché l’acqua viene dal sottosuolo dell’isola, che appartiene a tutti. L’acqua era gelata, buona, aromatizzata di erbe di brughiera. Scorrendo nella sua gola gli diede sollievo.

Sua madre bagnò una pezza e gli pulì delicatamente la mano ferita. Gli occhi di lei erano asciutti: le donne vichinghe non piangono per così poco. Non piange chi è costantemente seguito e minacciato dall’Hekla, e può perdere in un battito di ciglia le persone amate, la casa e la vita.

Sottovoce, ma ben udibile, nella lingua dei diavoli pagani cominciò a recitare una poesia:

Þat mælti mín móðir,

at mér skyldi kaupa

fley ok fagrar árar,

fara á brott með víkingum...

Così mia madre comandò che per me fosse costruita una nave con bei remi, perché andassi avanti, dove vanno i vichinghi...

Era una poesia di Egill Skallagrímsson.

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