Relativamente all’opera narrativa (il teatro meriterebbe un discorso a parte), letta una prima volta negli anni ’70 e riletta nel corso di quest’ultimo inverno (di recente è stata ristampata in edizione integrale da Il Saggiatore), scopro e riscopro il debito letterario che ho nei suoi confronti. Jean Genet era uno scrittore proletario e raffinato, selvaggio e sofisticato: insieme a Gide, Proust, Dostoevskij, Baudelaire e Rimbaud leggeva Ponson du Terrail, i romanzi popolari e la rivista Détective, letture proibite ai liceali del suo tempo, ai destinatari dell’acculturazione legittima, ai futuri scrittori ricchi. Basterebbe solo questo: ma c’è di più.

L’evento più importante che ha caratterizzato il secolo scorso, pur fra infiniti vacillamenti e regressioni, è la fine dell’autorità. Con l’attenuarsi dell’autorità scompare gradualmente la caccia alle streghe, l’eliminazione fisica e storica degli indesiderati: chi non aveva voce comincia a parlare, chi non aveva corpo comincia a emergere, chi non esisteva diventa un interlocutore. Analogamente, nella cultura e nell’arte, l’Alto e il Basso si avvicinano fino a confondersi e fondersi. Nasce il romanzo postmoderno, che è sinfonico e polisemantico. Sinfonico, perché fa sentire il suono di diversi strumenti, e polisemantico perché deve riflettere più visioni del mondo, opinioni e condizioni (nonché generi letterari). L’unità dell’opera non è più data dall’autorità che esclude le altre esistenze, ma va cercata nell’orchestrazione dei diversi strumenti, nella risoluzione dei conflitti, nella sintesi della molteplicità.

Genet è stato uno dei primi scrittori del secolo passato ad attraversare e farsi attraversare da questo evento epocale. Nei suoi romanzi, in cui si tratta sempre di assassini (alcuni sono anche dedicati a serial killer), gli opposti che ci dilaniano, Alto e Basso, Maschile e Femminile, Bene e Male, Luce e Tenebre, Santità e Inferno, sono miscelati a una velocità inumana fino ad assumere un unico colore, o nessun colore.

Devo ringraziarlo per aver discusso i ruoli sessuali, per averli frantumati e ridotti in schegge di specchi che possono riflettere ogni persona: Cercò gesti maschili, che sono raramente gesti da maschio. Fischiettò, si mise le mani in tasca e tutta quella messinscena fu eseguita in modo così goffo da farla sembrare in una sola serata quattro o cinque personaggi diversi. Ne ricavava la ricchezza di una personalità multipla. Che parli di un uomo o di una donna non fa più differenza (è il travestito Divine, protagonista di Notre-Dame-des-Fleurs), dal momento che gli uomini, come dice un collega di Divine, sono cattive.

Devo ringraziarlo inoltre per aver decostruito e ingoiato il romanzo popolare, rendendone in questo modo evidente la sua stessa struttura. Ogni suo libro, in particolare Querelle di Brest, narrazione delle gesta di un serial killer, potrebbe essere il lavoro di un attuale scrittore di thriller e/o noir intenzionato ad annullare la suspense e il consueto montaggio delle sequenze a favore del significato morale della storia, di quell’immersione nell’orrore necessaria per sfuggire all’orrore stesso.

A Genet devo anche una certa sinuosità della scrittura e quel tipo di lirismo che scaturisce dall’assemblaggio di materiali nobili e immondi, dal legame azzardato fra oggetti e linguaggi solo apparentemente dissimili.

Genet scriveva in Francia nei primi anni ’40, dando prova di uno stupefacente spirito profetico circa l’evoluzione dell’immaginario collettivo: Scoprite il detective. E’ una donna. Il cinema, fra altri artifici, crea la naturalezza, una naturalezza perfettamente artefatta e mille volte più ingannevole di quella vera. A furia di riuscire a somigliare a un congressista o a una levatrice, il detective dei film ha dato ai volti dei veri congressisti e delle vere levatrici un volto da detective; e i veri detective, sconcertati da questa confusione che mescola i volti, hanno scelto di avere un’aria da detective… “Una spia che assomigliasse a una spia sarebbe una cattiva spia”… Non lo credo. Negli anni ’60 avrebbe dichiarato l’estinzione dei generi letterari conosciuti, e la necessità di un nuovo genere ancora da inventare.

Ora, mi sconcerta vedere quanto poco l’establishment culturale italiano, dagli anni ’50 a oggi, abbia assimilato queste lezioni (ma forse non mi sconcerta affatto). Genet, molto apprezzato in America, attualmente al centro di riletture e polemiche in Francia (esaurite le trasgressioni degli anni ’50, delinquenza e omosessualità, ora si riscopre il suo “nazismo”), è passato per l’Italia senza cambiare nulla, o quasi. I critici italiani hanno scritto di lui in modo imbarazzato e/o imbarazzante, e perfino Carlo Emilio Gadda, suo primo recensore (Il faut d’abord être coupable, su Paragone, giugno 1950) avrebbe potuto essere più pacato e acuto. E’ sempre mancata, comunque, la serena semplicità di una coscienza a posto.

L’indifferenza italiana dispiace a me (è deludente constatare quanto poco i miei scrittori preferiti abbiano toccato il paese in cui vivo) ma non danneggia Genet, che sembra ormai entrato nell’eternità. Perché il suo miracolo, o il suo paradosso, è di essere stato contemporaneamente uno dei primi inventori del romanzo postmoderno e uno degli ultimi sciamani.

Ha rinunciato all’autorità, ma non al carisma; e ha sempre rivendicato per sé il sacro segno dei mostri.

Oggi il sacro segno dei mostri è sparpagliato in giro per il mondo, e vivo profondamente il dramma di veder replicata senza fine, come da milioni di teleschermi, una scelta di scrivere che ho creduto unica e unicamente mia. Allora, guardo Genet con rimpianto e come a un modello per l’avvenire: e penso a uno scenario futuro in cui, senza ritornare all’autorità, sarà possibile reintegrare l’effettiva funzione dell’artista come mediatore fra la collettività e la sua anima segreta.

Il presente articolo è stato pubblicato anche su M la rivista dle Mistero, nuova serie numero 1 - ottobre 2006 volume doppio - euro 3 - ISBN 88-89603-26-7