«Ma tu, Lupo della sera» aveva aggiunto la profetessa, «lo saprai, quando sarà il momento.»

Kveld giocava con la moneta, facendola passare fra le dita, lanciandola in aria, lasciandola cadere e riafferrandola prima che toccasse terra. Come ogni altro ragazzo della sua età. Come se non fosse stato diverso da ogni altro ragazzo della sua età.

Non c’era pace in lui, ma il torpore benedetto di un pomeriggio ozioso e la felicità esistenziale intatta, potente, di un tredicenne cresciuto in un’isola dove fra ghiaccio e fuoco, fra vita e morte, fra meraviglia e terrore scaturisce la poesia.

Kveld si sentiva quasi soffocare dalla bellezza sublime che lo circondava.

Dietro di lui la lyng, la brughiera, con i suoi avvallamenti alternati a colline ondulate su cui crescevano i licheni. Alla sua destra gli hagi, i pascoli naturali, dove brucavano le mandrie di bovini e di pecore del godhar, il capo del villaggio. Punti in movimento sul verde degli engi, i prati da foraggio. Il torrente scorreva ai suoi piedi, formando una cascata zampillante fra le rocce basaltiche, le felci e uno specchio d’acqua limpidissimo, oscuro per l’ombra proiettata dalla parete rocciosa. Sotto di lui il cimitero pagano dei vichinghi e, sulla collina opposta, il cimitero cristiano. Più in basso il fiordo e le case di Borg, la chiesa con il suo tetto di mattoni rossi e il campanile. Il molo con le barche da pesca, le scogliere e il mare calmo, luccicante al sole. Il faro, all’estremità del promontorio, i voli dei gabbiani e gli uccelli marini a stormi sulle rocce, intenti a passeggiare come una folla al mercato. Ogni cosa inesorabilmente al suo posto.

L’aria d’Islanda era così pura, e il cielo di un azzurro intenso talmente vicino alla terra, che ogni linea, ogni angolo, ogni dettaglio del paesaggio risultava di una nitidezza abbacinante, nello stesso tempo forte e inerme nella sua condizione di cosa creata, effimera ed esposta alla crudeltà della natura.

Kveld era profondamente commosso dalla fragilità di quella bellezza che lo circondava, che viveva e respirava così ignara del pericolo che la minacciava.

C’erano decine e decine di vulcani, sotto la crosta terrestre dell’isola. Il più alto e potente aveva nome Hekla. La sua cima era inviolata, invisibile a occhio umano, circondata da un’eterna cortina di nubi nere dalle quali venivano grida di uccelli: si diceva che fosse la porta dell’inferno. Le sue eruzioni venivano chiamate Hekla, come il monte incandescente. La più terribile, avvenuta quasi cent’anni prima, aveva sventrato il paese come il coltello del pescatore la pancia dello squalo, spianando montagne, aprendo fessure eruttive, vomitando fuoco e la lava nera che tutto distrugge al suo passaggio.

E creando altra bellezza.

I tavolati di roccia vulcanica, quella pietra nera dall’affascinante levigatezza, modellata in forme rugose o sinuose, simili al cordame ammucchiato sul ponte dei velieri. I laghi di un grigio-blu opalino, o giallo-arancio. Quei colori che solo un folle dipingerebbe sulla stessa tela, e che lì si fondevano ed esaltavano in una luce che tutto giustifica.

Al di sotto della terra solida e del ghiaccio continuava a scorrere la lava dei vulcani, come il sangue nelle vene di un corpo umano. Gallerie profonde e segrete nel suolo innevato portavano lava nera liquida e bollente fino ai fondali marini.

L’Hekla, la distruzione, non era morta. Dormiva, in attesa di risvegliarsi. Di portare frane, terremoti, maremoti. Di travolgere ancora piante, animali e vite umane nel crogiolo del fuoco liquido.

Alcuni ragazzi ignoranti credevano che l’Islanda fosse l’ultima terra del mondo, e che oltre, più a nord, e a occidente, non ci fosse più nulla. Lo credevano perché non avevano istruzione, e perché i loro genitori a loro volta non ne avevano. Kveld naturalmente sapeva che questo non era vero. Aveva appreso da suo padre che a sud c’erano terre interamente verdi, con alberi molto più alti degli arbusti islandesi, alti quanto tre uomini uno sopra l’altro e anche di più, e più a sud ancora paesi dove faceva sempre caldo e non cresceva un filo d’erba. E aveva appreso da sua madre che i vichinghi erano andati più a ovest ed erano approdati a Vinland, una terra fredda come l’Islanda ma interamente verde d’estate, e placida, dove l’Hekla non arrivava. Anche se il mondo era infinito, non disarmava il coraggio dei vichinghi. Non c’era luogo in cui i vichinghi non potessero andare.