In una parola, sconvolgente.

James Ellroy è uno scrittore tragico e l’occhio col quale vede e descrive la "tragedia umana" è spietato, non concede respiri liberatori o consolazione; finendo un suo libro, se ne esce annichiliti, sconfitti, prostrati e delusi, non dal genio che ha creato l’opera, ma dalla realtà che trasuda dall’opera stessa.

La cosa sconvolgente di James Ellroy è che gli incubi che racconta hanno una geografia precisa: l’America.

Gli Stati Uniti qui ritratti non sembrano galleggiare sul magma incandescente come gli altri continenti, ma su di un liquido putrido fatto di sangue e materia in decomposizione, sempre sul punto di sprofondarvi definitivamente.

Nella prima parte de L’angelo del silenzio, sembra di stare in mezzo ad un Giovane Holden deviato e psicotico. Poi la narrazione prende innumerevoli direzioni, guidata dalla macabra, fantasmagorica e sofferente mente di Plunkett, il protagonista: un serial killer che si prende gioco anche di Charles Manson, un uomo – frutto di fantasia, ma terribilmente verosimile – che lascia il vuoto dietro, davanti e dentro di sé.

Il Male Assoluto.

Questo è un altro aspetto de L'angelo del silenzio. Ciò che Robert Bloch descrisse con Psycho qui lo ritroviamo moltiplicato mille.

Il Male Assoluto.

Qualcosa che esclude anche ogni implicazione mistico-religiosa e che ci portiamo dentro fin dalla nostra vita intrauterina.

Quel qualcosa che, alla fine di questo romanzo a strati (possibile cioè di diverse interpretazioni a ogni livello di lettura), ci fa domandare con paura: "siamo noi il Male Assoluto?"