Facciamo conoscenza con David Norton (interpretato da Timothy Hutton), scrittore di fantascienza che durante un viaggio in aereo sta provando ad abbozzare l’inizio del suo nuovo romanzo. «Un appendice di carne palpitante scaricava dati alla velocità della luce»... no, è meglio cancellare: non viene detto ma è una frase che ha troppo il sapore di David Cronenberg, mentre questo è un film di Daniel Monzón, The Kovak box. Controllo mentale (La caja Kovak, 2006).

Il nostro autore sta andando a Maiorca per tenere un seminario di scrittura, e la domanda che apre l’incontro con i partecipanti è semplice: «In un mondo in cui gli scienziati fanno a gara per creare il primo clone umano, e intere popolazioni possono essere distrutte senza che un mattone venga danneggiato, la domanda è: è ancora possibile scrivere fantascienza?»

«La nostra realtà - continua Norton, - somiglia ogni giorno di più alla storia partorita dalla mente contorta di uno dei miei colleghi e sembra che questa realtà voglia veramente fare di noi scrittori dei poveri disoccupati. Ma io non lascerò che accada, non posso: dopo venticinque romanzi amo ancora quello che faccio, amo il mio mestiere.»

Il nostro grande scrittore subisce il destino di tutti i suoi colleghi: la famigerata domanda “dove trovi l’ispirazione?”. «È un po’ come ti viene una malattia - è la risposta di Norton. - Può capitare ad esempio che un giorno uno apra una finestra, o prenda la metropolitana e allora si esponga senza saperlo a qualche virus: così è nella mia vita: posso essere colpito da qualcosa, come un programma televisivo, posso ascoltare una conversazione. Sì, insomma, certe volte una sola immagine può dar modo a qualche virus di penetrare in me, nel mio corpo, dove inizia a crescere e presto si diffonde in tutto l’organismo e allora non mi resta altro che... sì, mi resta una sola via di scampo: scrivere un libro. Anche se per farlo forse dovrò dare vita ad alcuni mostri».

Lo scrittore David Norton (Timothy Hutton)
Lo scrittore David Norton (Timothy Hutton)
Non c’è proprio dubbio: questa è la perfetta definizione di un contagio memetico, il modo in cui un meme - un’idea, o un complesso di idee - infetta una mente umana.

          

Che anche David Norton abbia avuto un romanzo d’esordio di cui non va fiero è qualcosa di abbastanza ovvio. «Avevo vent’anni quando l’ho scritto - confessa ad un fan che gli mostra una copia di detto libro risalente al 1979, - la scrittura è rozza, lo stile cambia ad ogni capitolo, i personaggi sono copiati dai libri che avevo letto: me ne vergogno, ma purtroppo... l’ho scritto io!» Eppure per il fan è considerato il lavoro più personale, più ricco di passione, intuizione, sofferenza. «Be’, di sofferenza ce n’era a quel tempo - commenta sarcastico l’autore, - mangiavo solo biscotti: li rubavo al cane dei vicini. Avrei dovuto dedicare il libro a quel cane!»

Ma quel romanzo ha tante sorprese per il nostro protagonista.

Egli non sa che di “virus mentali” o “infezioni memetiche” ne è pieno il mondo, e sebbene ami inventare storie sul momento, quando gli comunicano che la moglie si è suicidata gettandosi dalla finestra la sua creatività scompare. Ma la scintilla si riaccende quando una sconosciuta gli fa sapere che anche lei si è ritrovata sul marciapiede sotto casa sua... senza avere alcuna intenzione di gettarsi!

Le sinapsi di Norton cominciano a sfrigolare quando scopre che tanto la moglie quanto la giovane Silvia (interpretata da Lucía Jiménez) prima dello strano incidente hanno ricevuto una telefonata da un mittente che si identifica con “Gloomy Sunday”. Rispondendo, parte la vecchia canzone che porta questo titolo... e parte anche l’infezione memetica che porta ad un suicidio forzato.

Esiste infatti una urban legend, una leggenda metropolitana (altro nome del contagio memetico), secondo cui molte persone si siano suicidate ascoltando questa canzone, che parla appunto di suicidio. È stata composta dal pianista ungherese Rezső Seress nel 1933, con parole del poeta László Jávor. Visto il grande successo in patria, in breve tempo la canzone - il cui titolo originale Vége a világnak (Fine del mondo) era stato cambiato in Szomorú vasárnap (Lunedì triste) - arriva negli Stati Uniti ed Hal Kemp la incide con il titolo Gloomy Sunday, utilizzando il testo in inglese scritto da Sam M. Lewis. La versione più celebre del brano è quella interpretata da Billie Holiday nel 1941.

L'opera prima di David Norton
L'opera prima di David Norton
La urban legend legata alla canzone nasce probabilmente nel 1968, quando il settantenne compositore Seress si getta da una finestra... più di trent’anni dopo aver scritto la canzone. La vita non voleva lasciarlo, e così in ospedale il vecchietto ungherese si soffocò con un cavo... Un racconto del genere non poteva non infiammare gli ascoltatori, così come ha infiammato la fantasia del regista e sceneggiatore del film di cui stiamo parlando.

«L’ha scritta un ungherese che fece un salto nel vuoto» riassume lo scrittore David Norton a Silvia, e rivela che da giovane egli stesso era ossessionato dalla storia della canzone, «al punto da diventare il titolo del mio primo romanzo». Così scopriamo che quell’opera prima di cui l’autore non andava fiero si chiama proprio Gloomy Sunday.

           

«Nel mio romanzo - spiega sempre il nostro Norton, - a tutti viene messo un impianto dalla nascita, un chip controllato dal Governo che, se attivato, spinge le persone al suicidio. Significa che lo Stato può eliminare chi vuole senza sporcarsi le mani. Tutti quelli che si oppongono al sistema, si tolgono spontaneamente dai piedi: si chiama auto eliminazione.»

Una semplice storia di fantascienza, si potrebbe dire, anzi: la classica storia cospirazionista di gusto americano, che ha il sapore dei classici film da “paura rossa” degli anni Cinquanta. Ma quando si concepisce un virus, questo comincia a contagiare. E se il virus mentale creato da Norton (cioè il suo libro Gloomy Sunday) avesse contagiato Frank Kovak (interpretato da David Kelly), che in seguito ha dato vita alla trama del romanzo e ora vuole contagiare di nuovo Norton, proponendogli materiale per un altro romanzo? Tutto finisce in un libro, diceva Mallarmé: anche i contagi mentali, aggiungiamo noi.

«Ti rendi conto del grande regalo che ti sto facendo? - chiede Kovak allo scrittore. - Una storia vera che è autentica fantascienza raccontata dal suo protagonista: tu. Piacerà a tal punto che i lettori non riusciranno ad abbandonare il libro prima dell’ultima pagina».

I lettori non lo sappiamo - in fondo stiamo parlando di uno pseudobiblion, di un libro che non esiste - ma gli spettatori riescono benissimo a non lasciarsi prendere fino alla fine. Daniel Monzón è un ottimo sceneggiatore e un bravo regista, ma aver scelto Maiorca come location, cioè l’isola in cui è nato, penalizza molto il film: troppe lunghe sequenze sono dedicate ad una specie di tour delle bellezze naturali, tradendo qualche sponsorizzazione della Pro Loco. Se avesse puntato di più sul dedalo pseudobiblico - un autore che scrive un libro che ispira uno scienziato che realizza il libro e che ispira lo stesso autore a scrivere un altro libro per raccontare tutto - sarebbe uscito fuori un film unico nel suo genere: The Kovak Box rimane invece una chicca ma non un film memorabile.

Sarebbe un’idea perfetta in mani più capaci. Sarebbe la trama perfetta per un romanzo di Danilo Arona...