In James Ellroy, al di là del suo essere “macchina scrivente”, sono evidenti le stimmate tipiche dello scrittore moderno: corpo, sangue e inchiostro. Complice una biografia che ha già nei suoi primi capitoli tutti gli elementi per saldare le trame del reale a quelle dell’immaginario letterario: dall’omicidio della madre passando per gli anni difficili passati a cercare di non affogare nell’asfalto rovente di LA, fino alla redenzione e al riscatto avvenuto attraverso il successo del suo flusso-scrivente. Non è certo l’unico della sua epoca – due nomi a caso: Eddie Bunker e Joseph Wambaugh – ad aver vissuto il disagio criminoso sulla sua pelle e ad averlo poi tatuato su carta. Ma sull’onda del mantra “Ellroy è Ellroy” con gli anni si è radicata, non a torto, l’idea del mostro sacro tra gli addetti ai lavori, gli appassionati e non, e quest’idea s’è ingigantita fino a sfiorare l’aura del mito moderno.

Anche per questo, a sentirlo presentare dal vivo Il sangue è randagio, il suo ultimo romanzo pubblicato in Italia da Mondadori, si ha l’impressione di essere al cospetto di una living legend. Sensazione confermata a Bologna lo scorso 4 febbraio, dove il grande guru della crime-fiction contemporanea conclude il suo tour promozionale, dopo una serie di passaggi fotocopia sulle maggiori testate nazionali e anche una puntatina in tv da Fabio Fazio: la sala principale della biblioteca Renzi è piena da scoppiare nell’ordine diverse decine di persone e anche la voce di Carlo Lucarelli, che lo incalza con domande puntuali, tradisce una sincera emozione e un altrettanto sincero spiazzamento dovuto alle risposte del suo istrionico interlocutore.

Ellroy esordisce con una roboante lettura d’incipit de Il sangue è randagio. Tra acuti, legati e andamenti da forte-fortissimo a note strascicate – un po’ beat e un po’ Salmuel Jackson in Pulp Fiction, diretto da quel Quentin Tarantino che il nostro, interpellato da Beatrice Borromeo sul Fatto Quotidiano, non ha esitato a definire come regista di film che fanno schifo, “ frivoli, sciocchi e da scartare”. In definitiva, una performance “fottutamente 60’s”. Del resto la sua ultima fatica, che chiude la cosiddetta Underworld USA Trilogy iniziata con America Tabloid e Sei pezzi da mille, corre su una pista che parte dal ’68, anno che inaugura un circuito insanguinato su cui rimasero cadaveri gente come JFK, Martin Luther King e corsero piloti tutt’altro che sportivi come l’allora ultra-capo dell’Fbi John Edgar Hoover.

L'ora della caccia

«È una delle storie più nere mai scritte sul male. Lo consiglio senza riserve, a patto che il lettore abbia nervi...

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Il campo di cipolle

Fernando Fazzari, 30/07/2009