Nel 1991 un giovane torna alla ricerca delle sue radici nel paesino dell'Appennino Tosco-Emiliano in cui ha vissuto. Fortuite circostanze portano alla luce nuovi elementi sulla morte del nonno, vittima nel 1944 della furia della guerra civile. In lui matura un'angosciante ipotesi sul responsabile di tale omicidio. Nel frattempo alcune morti sospette riaprono vecchi rancori e soprattutto rimorsi rimasti nascosti nel profondo dell'animo e mai sopiti. L'improvvisato investigatore svolge la sua indagine parallelamente a quella delle autorità per far luce sui recenti fatti di sangue. Un finale a sorpresa non porterà soltanto alla scoperta della verità, ma metterà in risalto la parte migliore dei protagonisti, aprendoli ad un possibile riscatto.

Germano Tomesani, cultore in particolare del tragico periodo della guerra civile, ha preso spunto dalle numerose uccisioni rimaste senza un movente e senza un colpevole per cimentarsi nella ricostruzione del passato attraverso storie di pura fantasia. Con Il canto delle clarisse abbiamo  un ritorno al giallo tradizionale di rigoroso impianto classico, sviluppato con una scrittura piacevole ed equilibrata, che imprime un buon ritmo narrativo grazie anche alla suddivisione in capitoli agili, che solleticano la voglia di arrivare in fondo al libro del lettore. E questo è forse il pregio maggiore dell’esordio letterario di Tomesani: il lettore è coinvolto e  stimolato a porre attenzione in prima persona  ai piccoli particolari, ai profili e alla psicologia dei personaggi, delineata sempre con grande attenzione. In una parola, pagina dopo pagina, chi legge si fa detective per giungere alla soluzione del caso. E, mentre indaga, ha più di un’occasione per riflettere sulla nostra storia più recente. Una storia che, a decenni di distanza, è ancora viva e intrisa di sofferenze e passioni non sopite. È estremamente significativo, in questo senso, lo sforzo di Tomesani di testimoniare punti di vista contrastanti e, a volte, molto scomodi sulle pagine più oscure della lotta di Liberazione. In definitiva, “Il canto delle clarisse” rappresenta un romanzo genuino, che ci parla senza remore o ipocrisie di un’Italia che ancora oggi fatica a confrontarsi con se stessa e con la propria Storia.

Ne parliamo con lo scrittore.

Signor Tomesani, si presenti brevemente…

Sono cresciuto in un ambiente familiare che non mi ha mai voluto condizionare. La politica schierata è sempre stata lasciata fuori dalla porta di casa. Sono nato nel 1949, mi sono diplomato nel 1968 e parimenti iscritto all’università, facoltà di Scienze Politiche, indirizzo storico. Questa è già una risposta all’improvviso coinvolgimento nell’agone politico, che riuscì a conquistare la mia simpatia per entrambi gli estremismi in lotta, con amicizie forti e sincere nell’uno e nell’altro campo. Quando, dopo due anni, per necessità contingenti, ho dovuto abbandonare gli studi e dedicarmi anima e corpo al lavoro, entrare nella vita attiva e far quadrare quotidianamente i conti, ho accantonato le passioni che non mi avevano ancora portato ad una scelta precisa ed ho rinviato le mie aspirazioni e curiosità ad un futuro non stabilito. Dopo circa quindici anni di limbo, ho deciso che il tempo e le situazioni potevano finalmente permettermi di dedicarmi alla ricerca di una soluzione dei miei dubbi. Mi affidai perciò alle letture delle esperienze dirette dei protagonisti dell’uno e dell’altro schieramento del periodo della guerra civile. Il risultato fu quello di riconoscere ad un uomo, ad un movimento, ad un’idea, non le attenuanti di una sconfitta, ma il rispetto dell’uomo per quello che è. L’essere umano è biologicamente fascista e lo Stato dovrebbe prenderne atto ed adeguarsi.

Mi spiegherebbe meglio quest’ultima affermazione? Mi sembra un po’ forte…

Questa frase necessita di una doverosa spiegazione, certo. Intendo dire che Mussolini non fece altro che prendere atto della natura dell'uomo, delle sue debolezze, delle sue aspirazioni, dei suoi pregi e difetti, dei suoi desideri più o meno inconsci, del suo bisogno di appartenenza, della necessità di un'identità importante, di valori in cui credere che  sono tali perché estesi ad una comunità che si allarga fino al concetto di Nazione. Diede forma politica a tutto questo. Poi possiamo credere utopisticamente in un futuro che sconfigga l'odio, l'invidia, l'egoismo, ma cancelli anche molti dei valori su cui poggiava l'ideologia perdente. Ideologia che risultò perdente anche e forse soprattutto per lo strapotere delle forze armate avverse, mentre altre sono cadute da sole perché impossibilitate a sostenersi attraverso la cultura della negazione dell'uomo a favore della massa. Il futuro non potrà che essere un ritorno all'uomo e gli Stati ne debbono prendere atto, evitando le leggi sui reati di opinione, che reputo assurde, ma ridando valore alle naturali aspirazioni dell'uomo. Soltanto prendendo atto di ciò, le istituzioni potranno regolare la vita delle comunità e gestirle al meglio. Faccio un esempio in relazione alla legge Mancino: si vuole, in pratica, per legge condannare un sentimento. Come è impossibile proibire di amare, è altrettanto impossibile impedire di odiare. Io debbo essere autorizzato ad esprimere entrambi questi sentimenti, poi le istituzioni provvederanno a far sì che a fronte di ciò io non trascenda usando la violenza che mi deve essere impedita ed eventualmente punita. Ogni giorno assistiamo a manifestazioni figlie del  bisogno di aggregazione dell'uomo, spesso prive di valori fondanti importanti, come gli ultras allo stadio, ma nessuno pensa realmente di porvi fine, perché si dovrebbe comunque trovare un'alternativa che per i governi potrebbe essere molto più pericolosa.

Lei è un esperto di storia militare, alla quale ha dedicato anche diverse pubblicazioni. Come è nata l’idea di scrivere il romanzo “Il canto della clarisse”?

Non potendo estendere il mio raggio d’azione alla ricerca storica, col necessario metodo ed ancora più necessari mezzi, ho unito la mia passione per la narrativa gialla tradizionale a quella per la storia contemporanea, in specie quella della guerra civile. Ho intrecciato fatti veri di racconti popolari di zone investite dalla furia degli eventi e dal fronte e li ho romanzati, creando “Il canto delle Clarisse”. Il filone, che è lo stesso del romanzo che sto ultimando, è quello delle numerose morti di quel tragico periodo rimaste misteriose, senza movente, e che trovano spiegazione e soluzione molti anni dopo.

Quali sono stati i suoi riferimenti nell’ambito della letteratura gialla? 

Agatha Christie su tutti. Potrei aggiungere Erle Stanley Gardner e Rex Stout. Preferisco la ricerca della soluzione attraverso indagini ed aule di tribunale, che la truculenta narrativa così di moda. Di Agatha Christie ho letto praticamente tutto, ma molti anni fa. Ai tempi, ho anche letto tanto di Raymond Chandler e Michey Spillane, ma sono rimasto romanticamente e nostalgicamente legato a Poirot e Miss Marple e alla loro simpatica pedanteria e pignoleria.

Un titolo su tutti?

Ricordo che mi piacque in particolare un romanzo con Poirot dove l'assassino è il narratore in prima persona, purtroppo non rammento il titolo, ma direi che rappresenta forse l'unico romanzo che si può ritenere quasi noir, in cui la ricerca della verità è vista dalla parte del criminale. Confesso che l'immersione totale per almeno vent'anni nella lettura della nostra storia recente, mi ha tenuto lontano da letture nostrane giallo/nere che meriterebbero senz'altro più attenzione, se si esclude "L'orma rossa" di Cesare Battisti, che ho letto e che mi è sinceramente piaciuto.

 

Per lei è più importante confezionare una buona trama poliziesca o mantenere una veridicità storica rispetto ai fatti che racconta? E quale di questi due aspetti Le ha creato maggiori difficoltà durante la stesura del romanzo?

Dovendo necessariamente affidarmi ad “…ogni riferimento a fatti e persone…ecc…ecc….” l’aspetto che mi ha più impegnato e mi impegna è quello della trama poliziesca. E’ questo che è importante, ma è altrettanto importante che i riferimento storici siano veritieri e documentati e soprattutto portati alla luce. Servono a rivelare realtà sconosciute ai più, perché così lo si vuole. Ben venga quindi un romanzo che si presenta “da ombrellone”, ma che nasconde l’esca  di una verità che aiuti a pensare, che inviti a farsi domande, magari traghettando il lettore dalla letteratura gialla a quella storica, ben mirata. Esempio: quando, nel mio romanzo, parlo dell’articolo 16 della dichiarazione di resa, mi aspetto che qualcuno faccia ricerche e che si faccia soprattutto domande. Nel romanzo che sto per ultimare cercherò di fare riferimento alla sentenza 747 del 26 aprile 1954 del Tribunale Supremo Militare che riconosce la qualifica di militari belligeranti a quanti prestarono servizio militare dal 1943 al 1945 nell'esercito della Repubblica sociale italiana.

Secondo lei, è vero che il giallo può essere considerato il nuovo romanzo sociale, come sostengono alcuni, oppure...?

Il vero romanzo sociale è quello storico. E’ anche vero che col romanzo poliziesco attiro e  introduco un maggior numero di persone nella realtà storico sociale del periodo di riferimento. Come ho già detto, può essere un’esca appetitosa.

Sta lavorando, dunque, a un nuovo progetto...

Sì. Cambiano i personaggi, ma l’indirizzo è lo stesso e mi propongo un risultato in linea con quanto ho anticipato nelle precedenti risposte.

 

Germano Tomesani, Il canto delle clarisse. Un giallo nella guerra civile, 2007, Lo Scarabeo (Bologna), pp. 240, Euro 14