L’idea per scrivere il racconto “Sansepolcrista e squadrista” inserito nell’antologia “Crimini di regime” (Laurum) e prima nella rubrica “Libri gialli camicie nere” su “Thriller Magazine”, nacque per caso, quando lessi uno stralcio tratto da un dispositivo di una sentenza che si riferiva a una vicenda di corruzione di minorenne. Un caso dibattuto quasi un secolo fa. La cosa che mi colpì, non fu tanto la storia in sé: un prete che aveva insidiato dei ragazzini, ma come i giudici avevano scritto le motivazioni che portavano alla condanna del “giudicabile”. Si trattava di una prosa “unica”, non confrontabile con altri stili e, a mio avviso, una vera miniera di trovate linguistiche. Così pensai di adoprare quel linguaggio per raccontare un presunto caso di corruzione di minorenni durante il fascismo. Per esempio, per chiarire che una testimone ha detto cose che non entreranno nel giudizio, ma saranno lo stesso valutate, si scrive: “Ritenuto che ciò che racconta la Lecci, di succedutole non può formare tema di giudizio, e perciò non farsi luogo a procedere, però se prescritta l’azione penale, il fatto sta e non può a meno servire ad elemento di convinzione, come si verrà discorrendo”.

Lo spirito del racconto è quello di mostrare che, in un regime autoritario, tutte le istituzioni rimangono come “infettate”. Così i giudici argomentano di corruzione di minori, senza accorgesi che, nel ripercorrere la storia che ha portato l’imputato in tribunale, descrivono un omicidio, verificatosi “a margine” della faccenda e non rilevato. Non solo i giudici scrivono che c’è stato un delitto, ma dalle loro parole si capisce che per quel delitto ci sarebbe anche un probabile colpevole, solo che si tratta di un uomo potente. Di un “sansepolcrista e squadrista”, cioè di un personaggio molto ben visto dal regime e perciò al di sopra di tutto. Se si leggesse la sentenza, senza pregiudizi, si capirebbe immediatamente che l’imputato, poi giudicato e condannato, è stato messo nel mezzo, per giustificare un suicidio che invece è un omicidio. Alcuni testimoni ne parlano, ma i giudici si stanno occupando di corruzione di minori e di sessualità “deviata”. Sono lì apposta per fare ordine e giustizia su un caso che mette in ballo questioni molto disdicevoli e immorali, dunque guardano il dito e non vedono la Luna. Si potrebbe aggiungere che fare questo è anche per certi versi “comodo”, perché guardare la Luna comporterebbe assumersi responsabilità non da ridere e vorrebbe dire chiamare in causa il potente di turno che loro definiscono: uomo pio, solo dedito alla famiglia e agli amatissimi figli, la cui posizione di rilievo nel paese lo ha spesso reso vittima di malelingue e di diffamatori senza scrupoli”.

Si occupa del caso un prete che, non convinto della sentenza, va a rileggersi le ragioni che l’hanno motivata. Alla fine uscirà sconvolto e andrà a parlare col vescovo dell’accaduto. Il racconto non dice come si evolveranno le cose ma, visti i tempi, viene da sospettare che l’imputato rimarrà in carcere e che un assassino resterà libero.