Esce nel bicentenario della nascita del conte Cesare Mattei il romanzo poliziesco di Loriano Macchiavelli (Delitti di gente qualunque, Milano, Mondadori, 2009), in cui è rievocata la figura di questo singolare e discusso personaggio dell’Ottocento, padre («scopritore» preferiva autodefinirsi) dell’«elettromeopatia», con la quale curò malati di mezzo mondo attraverso la somministrazione di farmaci la cui formula di fabbricazione era tenuta rigorosamente segreta (e lo è tuttora). Si trattava di prodotti omeopatici, potenziati, “caricati”, per così dire, di energia «positiva» o «negativa» o, come veniva anche chiamata, «elettricità rossa», «gialla», «bianca», «azzurra», «verde». Il rimedio Mattei è citato persino nei Fratelli Karamazov di Dostoevskij. Forse vi ricorse anche il poeta francese Arthur Rimbaud, ma ormai in condizioni disperate: lo attesterebbero un paio di lettere di Isabelle, sorella di Rimbaud, citate nel romanzo di Macchiavelli. «Marsiglia, 5 ottobre 1891. Mi hanno affidato anche l’elettricità e devo applicarla io stessa.»...

Si parlò di una medicina nuova, rivoluzionaria, che avrebbe soppiantato quella tradizionale, ma che procurò al suo ideatore polemiche a non finire, denunce e processi per esercizio abusivo dell’arte medica e farmaceutica e vendita abusiva di medicinali.

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I turisti, in viaggio nell’alta valle del Reno, lungo la strada che collega l’Emilia alla Toscana, facendo sosta a Riola, magari per visitare la bella chiesa di Alvar Aalto, possono vedere i resti della dimora del conte, la Rocchetta Mattei, aggrappata a uno sperone di roccia nel punto in cui, in un paesaggio leonardesco, il torrente Limentra si getta nel Reno. Un tempo vi sorgeva un castello della Contessa Matilde di Canossa e, prima ancora, una fortezza bizantina. Ce lo dice Macchiavelli nelle prime pagine del romanzo in una rapida carrellata sul Medio Evo, in cui ricorre la visione sinistra di vittime chiuse in un sacco e gettate, nottetempo, giù dagli spalti nelle acque sottostanti.

I cinefili possono aver visto la Rocchetta Mattei nel primo film di Pupi Avati, Balsamus, girato lì nel 1968, oppure nell’Enrico IV di Marco Bellocchio (1984), tratto da Pirandello. Del resto la Rocchetta è stata oggetto di alcuni documentari trasmessi da reti televisive locali e nazionali (1).

La costruzione è un ibrido di stili disparati in cui predomina il moresco, il neo-romanico e il neo-gotico. Voluta dal conte Mattei, che vi posò la prima pietra nel 1850, non si sa se sia cresciuta per aggregazioni successive come i borghi medioevali, oppure se sia nata da un progetto unitario nella ricerca, pare, di misteriosi equilibri tra forze terrestri e astrali. Ad influssi celesti sembrerebbe alludere il richiamo alle stelle di sedicesima grandezza nell’epitaffio del conte. Macchiavelli ne riporta il testo, che si legge su un lato del sarcofago nella Cappella della Rocchetta (la chiesa è ispirata, niente di meno, che alla moschea-cattedrale di Cordova, così come l’adiacente Cortile dei Leoni è ispirato a quello dell’Alhambra).

Se questo bric-à-brac architettonico è lo specchio della mente del suo abitatore, non c’è dubbio che ci troviamo di fronte ad una personalità piuttosto complessa.

Il castello fu abitato fin dal 1859, ma il conte vi prese dimora stabile nel 1873 e vi trascorse gli ultimi ventitrè anni della sua vita. Qui, circondato da una numerosa corte, riceveva gli ospiti, visitava i pazienti, qui produceva i famosi rimedi e dirigeva un giro di affari sempre più imponente, perché a partire dal 1881 era cominciata la commercializzazione su vasta scala dei suoi prodotti. In vecchiaia fu afflitto, secondo la diagnosi dello psichiatra di scuola lombrosiana, Enrico Morselli, da «paranoia senile» caratterizzata da «deliri persecutori e di grandezza»(2).

 

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Nello stesso anno della sua morte, 1896, un altro grande infelice, il drammaturgo svedese August Strindberg, in una soffitta di Parigi, trasformata in corrusco laboratorio di alchimia, faceva esperimenti nella vana speranza di fabbricare l’oro. Anche lui, come Mattei, aveva deliri di persecuzione e di grandezza, vedeva cospiratori  dappertutto, si sentiva vittima di «forze elettriche» dirette contro la sua persona da misteriose macchine, «accumulatori di energia», che i suoi nemici avrebbero collocato nelle stanze accanto alla sua e sui tetti delle case di fronte (3). L’elettricità era per lui una forza diabolica, che può uccidere. Per Mattei, una forza benefica che può ridare la salute. Pensieri contrastanti di questo genere dovettero suggestionare l’Europa di fine secolo.

 

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Loriano Macchiavelli, nato a Pioppe di Sàlvaro, a poca distanza da Riola, ci andava a giocare, subito dopo la guerra, alla Rocchetta Mattei, già allora in stato di semiabbandono e bisognosa di restauri: un mondo fatiscente di pietra, stalattiti di cartapesta, piante rampicanti che sorreggevano, dopo averli sgretolati, stucchi e intonaci cadenti.

C’è, fra i personaggi del romanzo, un ragazzino che «pare sia nato qui [in Rocchetta] e corre giù per la scala a chiocciola come un leprotto. Nel corridoio, prima di prendere la seconda parte della scala, aspetta i grandi troppo lenti per lui».

Lo scrittore attribuisce i propri ricordi, arricchiti da fantasie infantili e leggende popolari, al personaggio letterario che lo ha reso celebre, il poliziotto Sarti Antonio della Questura di Bologna.  «Una vallata [quella del Reno nel tratto appenninico] che Sarti Antonio, sergente, conosce piuttosto bene per averla frequentata in tempi di sua infanzia e gioventù. Quando di diventare questurino non era nelle litanie dei suoi Santi.»

«Corridoi, budelli, scale a chiocciola, stanze... » «Abbandono, polvere e ragnatele, buio, silenzio, freddo, presenze e assenze...»

 

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Intorno a questo mondo, ricco di memorie storiche, Macchiavelli ha chiamato a raccolta molti dei suoi fortunati personaggi di primo e di secondo piano, lontani nel tempo e recenti: l’indimenticabile Biondina (che ora non lavora più sui viali, ma riceve i clienti, con discrezione, nel suo appartamento); l’archivista zoppo Poli Ugo, scorbutico come sempre; l’oste soprannominato Il Lurido; Settepaltò, un barbone che raccoglie rifiuti, protetto da una quantità di cappotti e un casco da cantiere, come sigillato in uno scafandro, perché ha la fissa delle «radiazioni», non meglio precisate, «causa principale, a suo giudizio, dei malanni fisici e mentali che tormentano i bolognesi»; è nominata di sfuggita persino l’ex coinquilina del sergente, la vicina della porta accanto, la Grassona, che però, nel racconto Un caffé di troppo per Sarti Antonio (2005) (4), ha fatto le valigie di nascosto e se ne è andata senza salutare nessuno.

Ci sono le figure fisse dell’ispettore capo Raimondi Cesare, dell’agente Felice Cantoni, autista dell’auto 28, ma probabilmente d’ora in poi troveremo anche una donna nell’ufficio di Sarti, l’agente Prenotato Salvatrice.

Una Bologna sempre meno solare, anzi sempre più sotterranea e consunta, intride questi personaggi.

«La città è bucata da chilometri di gallerie, cunicoli, canali... come un legno pieno di tarli e poi mangiato dall’umidità.»

Quindi lo scenario si sposta sulle colline (il trasmigrare nei luoghi delle origini è il più incisivo tratto autobiografico nei romanzi di Macchiavelli), e Bologna si perde nella sua densa nuvola di smog. Lungo il Reno le ruspe radono al suolo le baracche dei clandestini.

 

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I protagonisti restano il sergente Sarti Antonio e il suo amico Rosas.

Dell’ispettore capo Raimondi Cesare si dice, a un certo punto, che il suo «diretto superiore, i superiori del diretto superiore e su fino al Viminale, gli stanno addosso, giorno e notte» perché dia rapida e soddisfacente soluzione alle indagini in corso. Inevitabilmente il peso di queste pressioni viene scaricato sulle spalle del diretto subalterno, cioè su Sarti Antonio. È perciò più che giustificata la colite spastica di origine nervosa di cui soffre il questurino. «Te la tieni e impari a conviverci!» sentenzia il medico. E Sarti impara a conviverci bevendo caffé: è convinto che gli faccia bene, una teoria come un’altra.

Rosas, un po’ pateticamente, porta ancora ai piedi «sandali sbrindellati», come nei primi anni Settanta quando era studente universitario. Ve lo ricordate com’era allora? Bello no, almeno a giudizio di Sarti: con quella «faccia da scemo», le lenti spesse come fondi di bicchiere, dietro le quali stringe gli occhi che si riducono a due fessure suggerendo l’immagine del muso appuntito di una «faina». Piaceva però alle ragazze, dalle quali si faceva coccolare «come un gatto». Quando Sarti, nelle ore più impossibili, irrompeva nell’alloggio dello studente, capitava spesso che da quel viluppo di coperte, vestiti, cuscini, che era il suo letto, sgusciasse fuori il corpo nudo di una ragazza dall’aria assonnata e per niente intimorita; l’impressione della nudità di Rosas era tutta concentrata sulla sua faccia: priva di occhiali. Poi Rosas si è laureato, ha ottenuto un incarico all’Università, adesso si sta preparando per il dottorato di ricerca con uno studio su Politica ed etica. Sottotitolo: Lo scontro giudiziario Minghetti contro Mattei.

 

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Ecco come entra nella vicenda il conte Cesare Mattei. Per quello che riguarda Minghetti, si tratta proprio di Marco Minghetti, bolognese (1818 – 1886), cui sono intitolate strade e piazze d’Italia, il noto ministro delle finanze ai tempi in cui la Destra storica conseguì il pareggio del bilancio, due volte capo del governo, in gioventù amico del conte Mattei, in seguito suo «acerrimo nemico», vero e o presunto tale.

Ora lo scontro giudiziario Minghetti-Mattei ci fu per davvero. E altri episodi narrati da Macchiavelli sono realmente accaduti e documentati, come la sottrazione di radium alla clinica universitaria Sant’Orsola nel luglio 1944 da parte delle SS. L’intraprendente cameriera del conte, la cosiddetta «Trebisonda»,  che per qualche tempo dopo la morte di Mattei continuò a produrre i farmaci per conto proprio, è esistita, ha nome e cognome.

Ma il romanzo non vuole essere una ricostruzione storiografica. Prende spunto da fatti veri e li sviluppa in un intreccio fantastico le cui fila convergono nella Rocchetta Mattei come verso un polo di attrazione.

Nell’atmosfera di mistero che si addice al luogo, i volti dei personaggi storici sono sfumati, affiorano dal passato e vi sono riassorbiti. Minghetti, pur con i suoi connotati reali, diventa una figura immaginaria, un pretesto per quelle considerazioni su politica ed etica che stanno a cuore a Rosas ed emergono nel titolo del libro: «Se i politici fossero gente qualunque... Vengono perseguiti i delitti di un uomo qualunque; i delitti di un uomo politico, il più delle volte, restano impuniti.»

Il vecchio misterioso che conosce tutti i segreti della Rocchetta non è venuto in nessuna delle fotografie che Rosas gli ha scattato, allora abbiamo la sensazione di esserci sospinti in un territorio in cui il poliziesco confina con altri generi, vien fatto di pensare a Pederiali. O di essere ancora in viaggio, circondati da una folla di pellegrini-fantasma, verso «la città nascosta», descritta da Macchiavelli in Via Crudes (2008), favola nera e corale pubblicata pochi mesi prima di Delitti di gente qualunque.

 

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L’intreccio poliziesco prende l’avvio da una situazione simile a quella che abbiamo incontrato nel primo romanzo di Macchiavelli, Le piste dell’attentato (scritto nel 1973, pubblicato nel ’74): Rosas si trova in un posto in cui non avrebbe dovuto essere, cioè nei pressi del luogo del delitto, e questo basta alla polizia per ritenerlo colpevole. «Il ragionamento è semplice: c’è di mezzo Rosas? Il responsabile è Rosas... questo anarchico che ha portato a Bologna terrore e tensione. Una città che è sempre stata tranquilla...». È la logica dell’ispettore capo Raimondi Cesare.

Ma Sarti vuole dimostrare l’innocenza di Rosas e nel contempo sollecita da lui un aiuto per sbloccare le indagini giunte a un punto morto.

 

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Caro vecchio Rosas. Nato in una precisa contingenza storica, la contestazione studentesca, creato per portare in primo piano nel romanzo poliziesco l’attualità e il presente, ha dovuto subire, a differenza di Sarti, un’evoluzione nel tempo. Un po’ si è invecchiato come tutti noi. Una caratteristica però l’ha conservata: come un animale selvatico (non per niente viene chiamato «il talpone»), in qualsiasi luogo si trovi si rifà la tana: non importa se in una stanza sotto i portici di Santa Caterina, centro storico di Bologna, o nello studio che l’Università gli ha messo a disposizione, o nel Salone Inglese della Rocchetta Mattei, la sua tana consiste sempre in una branda, coperte e indumenti alla rinfusa, carte, libri, scatolette, lattine, un fornello... E Sarti lo va a cercare nella suo covo.

Il fatto è che Sarti ha bisogno di Rosas (più di quanto Rosas abbia bisogno di lui): «Se i misteri diventano troppi, Sarti Antonio, sergente, si rende conto della sua incapacità a risolverli. Sono momenti nei quali ha bisogno di Rosas e, notte e giorno che sia, lo va a trovare, gli offre la cena e gli confida lo stato delle indagini. E il suo stato. D’animo.»

Come accade da sempre: «Mi dai una mano. Raimondi Cesare vuole che io me ne stia fuori e così ci provo da solo. Anzi, ci proviamo noi due.» (Sui colli all’alba, 1976)

 

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Rosas, ai tempi della prima avventura con Sarti, leggeva Lenin e Majakovskij. Oggi si interessa a Mattei.  E pensare che i rimedi Mattei sono stati in commercio fino a tutto il 1968. Ma Rosas nel ’68 doveva avere ben altro per la testa. E il laboratorio, il deposito, il centro amministrativo per la vendita dei prodotti «elettromeopatici» (in seguito semplicemente «omeopatici») aveva sede in un palazzo di Strada Maggiore al numero 46. Chissà quante volte Rosas ci sarà passato davanti. E in questo palazzo sono vissuti gli eredi di Mattei. Dunque Rosas avrebbe anche potuto (si fa per dire) incontrare, all’Università, la contessina che ha ereditato il titolo nobiliare e oggi dichiara di custodire la formula dell’elettromeopatia, di esserne l’unica depositaria legale. Poi, nel 1975, ha fatto le valigie e si è trasferita altrove...

Bologna, città di misteri e di imprevisti. Come ce la fa apparire Loriano Macchiavelli da trentacinque anni a questa parte.

 

(1) I film e i documentari citati si possono rintracciare nel sito dell’Archivio Museo Cesare Mattei: www.cesaremattei.com.

(2) Sullo stato mentale del Conte Cesare Mattei inventore dell’elettromiopatia. Perizia psichiatrica del prof. Enrico Morselli, Direttore della Clinica delle malattie mentali e nervose nella R. Università di Genova, Genova, 1899.

(3) Il periodo parigino (1894-1897) è descritto da Strindberg nell’autobiografia Inferno.

(4) In AA.VV, Caffékiller, il sapore giallo-noir del caffé, Sona (Verona), Morganti editori, 2005 («Cattivi golosi»); quindi in L. Macchiavelli, Sarti Antonio. Di nero si muore. Racconti, a cura di M. Carloni e R. Pirani, Milano, Mondadori, 2008 («Oscar bestsellers»).