Il 9 maggio ricorda una di quelle date che hanno cambiato il corso della storia, un giorno emblematico della nostra repubblica, quello cioè (quest'anno ne cadeva il trentennale) del ritrovamento del corpo di Aldo Moro nella ormai storica renault rossa abbandonata dai brigatisti in via Caetani a Roma. E da quest’anno è anche il Giorno della Memoria. Una ricorrenza che celebra tutte le vittime del terrorismo, senza distinzioni di credo e appartenenza, e, come recita il testo di legge, “al fine di conservare, rinnovare e costruire una memoria storica condivisa in difesa delle istituzioni democratiche.”

Ma la lunga e drammatica stagione del terrorismo rosso e nero (ammantato dal grigiume della confusione, dalle collose reticenze di un potere non sempre all’altezza del suo compito ufficiale, oltre che dai troppo frequenti e complici silenzi imposti dai mille segreti di stato) non ha visto solo l’omicidio dello statista democristiano. Sono stati assassinati anche semplici carabinieri, poliziotti, magistrati, giornalisti, dirigenti d’azienda e un numero inquietante di giovani (spesso minorenni come i loro assassini). Nonché comuni cittadini trovatisi per colpa di un destino spietato in mezzo alla follia di un pensiero che si trasforma in azione, al piombo delle rapine o in luoghi pubblici diventati improvvisamente obiettivi strategici da far saltare in aria con esplosivo quasi sempre di alto potenziale e dall’oscura origine mediorientale, l’area geografica con cui parevano esserci interlocutori privilegiati in un traffico d’armi che vedeva protagonisti figure della lotta clandestina ma anche coperte da ruoli istituzionali.

Anni di piombo sono stati definiti. Anni di una guerra ideologica urlata attraverso il fuoco delle armi, ma al tempo stesso silenziosa, mai dichiarata, che ha attraversato tutta la penisola, senza alcuna eccezione, senza distinzione tra metropoli e campagna. Una guerra senza esclusione di colpi nelle piazze durante i comizi sindacali o i cortei, sui treni che percorrevano in lungo e in largo la nostra ragnatela di binari, davanti alle caserme, alle università come ai licei, nei portoni sotto casa, se non addirittura dentro le case, con la stessa crudele violenza delle bombe sganciate dal cielo in tempo di guerra.

Morti che si sommano a morti, e che invitano a chiudere la partita con altre morti. Come una faida da bassa criminalità, atroce e ignorante, violenta e arrogante, e senza un valore oggettivo da perseguire. Se non troppo spesso la pura vendetta. Morti sospette. Regolamenti di conti. Metodi sbrigativi. Che negli anni di maggior tensione i più romantici vivevano quasi come un eterno duello tra bene e male, tra oppressi e oppressori, tra eroismo e leggenda, un po’ Pat Garrett e un po’ Billy The Kid. Senza regole. E con troppi punti in comunione tra le parti avverse, e troppi legami con il mondo della finanza, dei servizi segreti, della criminalità organizzata, della politica di palazzo.

Quelli del terrorismo sono stati dei morti troppo in fretta accantonati nel dimenticatoio, in nome di un utilizzo della pena di morte messa in atto senza processo e senza diritto, nello scantinato di una società che aborrisce la morte come atto di giustizia. E tanto pentitismo, dozzinale, da contrattazione di mercato, un po’ troppo affrettato e abusato per salvaguardare l’utilitarismo individuale appena si schiudeva la porta di una cella, facendo calare il buio sulla propria libertà. Un pentitismo senza cuore ma sfibrato da altrettanta teoria razionale per giustificare una sconfitta. Un’arma vincente è stato definito. Ma quantomeno sconcertante.

Risultato di questa miscela: un lungo elenco di decessi causato dallo scontro feroce tra uno stato contro un altro microstato in embrione. Una logica che legittimava l’applicazione della pena di morte nei confronti di chi maturava pensieri differenti. E che voleva esprimerli nel nome di una libertà che già era costata il sangue di un’intera generazione.

Sono migliaia i fatti piccoli e grandi dal sapore del terrorismo nostrano, unico in tutta Europa. Sono quasi 300 le lapidi che raccolgono i resti delle vittime che questi fatti e fatterelli hanno provocato. Ma, trattandosi della vita e della morte di persone, non credo che si possa ridurre il tutto a statistiche o a cifre asettiche da analisi sociologiche. Oggi sono spesso i figli delle vittime, ormai cresciuti e con la giusta necessità di capire cosa è successo davvero ai loro padri, se non addirittura madri che hanno pianto figli allora neanche ancora adolescenti, a voler scoperchiare quella memoria sepolta da polvere e scartoffie per dare un valore e un significato alla loro ingiustificata scomparsa. Soprattutto di fronte ad una giustizia che non è stata capace nel corso di questi tre decenni di svolgere fino in fondo il suo dovere civile, lasciando aperti troppi faldoni, e senza riuscire a chiudere inchieste in un modo doverosamente giusto. Una per tutte quella sulla strage di Piazza Fontana consegnando verità, chiarezza e soprattutto i colpevoli alla nostra memoria.

9 maggio: è stato chiesto un minuto di silenzio. Uomini e donne di coscienza lo hanno rispettato. Un ulteriore minuto, arrivato alla fine di ben trent’anni di altrettanto triste, e colpevole silenzio. E forse è il caso che ognuno di noi levi un filo di voce per dare corpo ad un coro di sdegno nel nome di una sacrosanta voglia di libertà, che dia ad una società civile la sua vera ragione di esistere come tale.