Mi sono seduto davanti a questa grande piazza guardandola di profilo. I tavolini del bar d’angolo mi parlano ancora come quel pomeriggio di tanti anni fa che quasi mi vien da pensare che non ero io, ma un sogno tenace e ostinato, come quei tempi.

Se oggi avessimo davanti quello che siamo stati, credo non ci riconosceremmo più, forse ci volteremmo le spalle.

Proprio vero. Parei, verrebbe da dire alla piemunteisa. Sono qui, qui dopo vent’anni, stessa città stesso posto potrebbero dire le parole di una canzonetta senza senso, un motivetto di quella civiltà piccolo borghese che ci ha scavato dentro come un cancro.

Avevo giurato di non metterci più piede, di stare lontano.

Invece eccomi.

Presente.

Avverto un senso di freddo, una corrente gelida che mi invade il corpo e mi lascia al buio.

Mi trovo ad attraversare la piazza sul grande fondo in porfido che la fa bella, più umana, rifatta per nascondere la brutalità e la violenza di quegli anni, quasi per azzerare la storia.

Nella mia testa però non posso cancellarne il ricordo, un ricordo preciso e netto nella memoria, come un’antica acquaforte. La fontana al centro, la banca sul lato meridionale, la tenda verde dell’ingresso del grande cinema…. Mi rendo conto che tutto è rimasto uguale, ma forse non è uguale.

È diverso..

Anche noi siamo diversi.

Forse è colpa di questo tempo che ci ha preso in mezzo come una morsa, forse è colpa degli anni, del mio sguardo che non è capace di andare più in là del mio naso.

L’occhio della memoria vede ancora le notti di sigarette nei chioschi dei dintorni con quelle discussioni accese su Mao e Lenin, le assemblee al vecchio circolo che una volta proiettava film di seconda visione, le sciarpe rosse, gli agguati dei fasci, i pestaggi, la celere, i lacrimogeni, le cariche degli sbirri, si sa, quei quattro straccioni han gridato più forte di sangue han sporcato il cortile e le porte, chissà quanto tempo ci vorrà per pulire…;

È mezzogiorno. L’autobus ferma davanti al portone del carcere. Attendo due ore all’ingresso il permesso del giudice di sorveglianza per poter accedere ai colloqui. In sette mesi undici trasferimenti. Da un carcere speciale ad un altro, tutto per fami desistere, ma io non mollo, non cedo le armi.

Guai arrendersi.

Aspetto il permesso, un permesso che non arriva. Io resisto. Prima o poi potrò vederlo. Ho ancora qualche lacrima di riserva, un po’ di birra in corpo e fiato da spendere.

Perché proprio adesso devo mollare, adesso che la sconfitta brucia sulle nostre teste senza più speranza?

Che mondo abbiamo lasciato, quale si prospetterà ai nostri occhi?

Allora tutto sembrava un incubo, più spaventoso che doloroso: l’attentato per colpire il cuore dello stato, le sparatorie, quindici colpi a bruciapelo per dare un significato alla storia e chi se ne importa se in quel corpo visto come un simbolo del potere c’era un padre, un marito, un figlio. E gli interrogatori, il processo, l’istruttoria. E adesso questo colpo di spugna per azzerare la nostra lotta, per cancellare quello che siamo stati.

È stato molto dopo che sono venute le lacrime a vedere il mondo dietro le sbarre di un carcere speciale, con le guardie che ti massacrano di botte un giorno sì e l’altro pure.

Non so com’è questo carcere, forse uguale a tanti altri che soffocano la memoria, che spengono la nostra dignità.

Una luce opaca sale ad accendere la rabbia sopra il tuo viso. Non capisci più nulla, una rabbia che non si può misurare e contenere, perché il cuore è solo un muscolo, una spugna che assorbe e non trattiene. Nella testa c’è la freddezza giusta, quella che non ti fa indugiare.

Spara. Chiudi gli occhi e spara.

È davanti a te, steso sul selciato, immobile. Non hai tempo di guardare la sua espressione davanti alla morte. E tutto questo perché? Per cosa? Dimmelo. Per la rivoluzione? Che siano per la rivoluzione questi morti, questo sangue, braccia abbandonate lungo corpi estranei, corpi coperti da lenzuola bianche su un marciapiede dove non ha senso morire.

Non possiamo accettarlo.

Ricordo il giorno prima del tuo arresto. La tua mano ferma sulla mia, il disco degli Inti Illimani, poi la serratura saltava, noi, il terrore, la digos, il buio. Da quel momento non ti ho più visto, tu da una parte, io da un’altra, sempre in viaggio, da una cella ad un cellulare ad una nuova cella.

Eravamo consapevoli dei pericoli cui andavano incontro, per questo non ho mai pensato che il nostro rapporto fosse eterno. Amavo però la consapevolezza della precarietà del nostro tempo, la durezza della doppia vita, il sapore amaro della latitanza che lasciava fuori le passioni e gli affetti.

"Un giorno o l’altro ci spareranno o finiremo arrestati," dicevi. Lo dicevi scherzando, ma io ci vedevo una paura nascosta, terribile.

Che succederà da adesso in avanti?

Ho un dolore in mezzo al petto che mi annebbia la vista.

Il domani è un pozzo scuro e infinito in cui mi sento cadere dentro.

Il permesso è arrivato. Siamo nella sala dei colloqui, io e te, da un’estremità all’altra, con le guardie che ci impediscono di stare vicino.

Era così bella la nostra vita una volta. Le fughe, le difficoltà, le nostre evidenti paure, perché dopo c’era questo calarsi insieme: libri, carezze, lotte giuste per un mondo giusto.

Perdonami caro, perdonami per le parole che non so dire, è insopportabile questa luce opaca, mi tortura gli occhi. Lo sai bene che anche per me, per noi che non crediamo in Dio, è una pena varcare questi cancelli che si chiudono con uno scatto automatico, le stremanti attese con la speranza di un colloquio che non arriva perché all’ultimo mi dicono che ti hanno trasferito in un carcere a cinquecento chilometri di distanza.

Ti guardo. Ti hanno appena pestato stanotte, Sei tutto livido e tumefatto sotto lo sguardo divertito delle guardie che sembrano prenderci in giro.

Nella testa, non so in che modo, gli anni cominciano a correre indietro, come nei vecchi film quando vedi i foglietti del calendario che volano via portati dal vento. Indietro, indietro, fino all’autunno in cui ti ho conosciuto. La politica ci aveva contagiato, aveva rapito le nostre anime. I gruppi di studio, le assemblee, i volantinaggi davanti alle fabbriche. A ripensarci ora mi viene un malessere acuto, come se quel sogno e quel desiderio di rivoluzione che ci animava si annidano nella nostra sconfitta e nel tuo mondo offuscato dalle sbarre di una cella.

Intollerabile.

Sono ancora in strada. Piove. La città sembra cadere nel sonno. Noi abbiamo provato a destarla da questo torpore. Poi ci siamo arresi. Dai campi al mare, alla miniera, all’officina, chi soffre e spera e poi ancora sangue del nostro sangue, nervi dei nostri nervi, come fu quello dei Fratelli Cervi.

I pentiti si sprecano facendo strage dei nostri ideali. Niente ci è stato risparmiato, lo so, quel nostro movimento è stato considerato sovversivo e violento, eh sì che siamo stati ragazzi modello, che andavamo al catechismo, frequentavamo l’oratorio, forse così, nera camicia nera ti abbiamo lavato, non eri di marca buona ti sei ritirato, è vero ma c’era sul serio l’impegno di una politica diversa, alternativa.

Adesso la maggior parte dei compagni si è appiattita, rinnega quello che è stato. Si vergognano di essere stati comunisti.

La gente dimentica, vive con il desiderio di dimenticare…

Ma io non posso scordare i cortei con le bandiere rosse, il solo vero nemico che abbiamo al fianco adesso è sempre quello stesso che fu con noi in montagna, ed il nemico attuale è sempre e ancora uguale a quel che combattemmo sui nostri monti e in Spagna. Parole, soltanto parole. È l’epoca del riflusso e io provo rabbia e risentimento per i nostri ideali andati in pezzi, per le incomprensioni e le chiusure verso quelli che hanno coltivato sogni e vissuto queste esperienze.

Non si può più sognare, abbiamo pagato a caro prezzo, non ci hanno scontato niente, nemmeno quando le parole di bella ciao avevano un significato profondo e ci facevano accapponare la pelle.