Alcuni tra i più vecchi genovesi raccontano che, ancora negli anni Cinquanta, si poteva fiutare l’odore di salmastro e di marino che saliva dalle calate del porto, lungo i caruggi, sulle piazze.

Forse è vero. Io non me lo ricordo. Dicono sia stato così, ma io non riesco a ricordarlo. So che me ne andavo dentro quel tramonto grigio lungo via del Campo e l’unico odore che il mio naso percepiva era quello della rumenta che si accatastava lungo gli angoli, mescolato al puzzo delle friggitorie e delle mescite di vino da cui usciva un fetore di cancarone che lévati, ma era rumenta, spazzatura soprattutto, che i topi ci andavano a banchetto e per i celebri gatti di Genova era una festa.

Andavo veloce: avevo appuntamento con Tiziana, la mia mina, ed ero in ritardo. Non per colpa mia. Avevo incontrato una tizia, Marinella, e il racconto della lunga e complessa storia fra lei e il suo uomo, un militonto di LC, mio mezzo amico, mi aveva fatto perder tempo. Senza chiarirmi le idee. Allontanai dalla testa quei pensieri e mi ripromisi di chiamarla l’indomani per sentire che aria tirava.

L’indomani invece me ne stavo nella latteria di Nanni, prima della curva di Oregina, a un centinaio di metri da casa mia, e leggevo a sbafo i giornali, quando la porta a vetri si aprì e il Rosso entrò come una furia. In effetti, quando sono a casa, sto più nella latteria che altrove, ed è il posto dove la gente che mi cerca è sicura di trovarmi. Ed infatti il Rosso si guardò attorno, pensieroso, poi mi individuò e venne veloce verso di me. Il Rosso era un portuale di Potop, ci conoscevamo da una vita nonostante le diverse prospettive politiche, ma vederlo piombare nella latteria in quel modo mi sconcertò. Perché il Rosso era impenetrabile a tutto, manco quando caricavano i celerini muoveva il culo.

- Ciao, - dissi, facendogli un cenno - a cosa devo…

Il Rosso si catapultò alla mia sedia. Aveva la faccia livida come se l’avessero messo in una conca con la schiuma frenata o qualche cazzata del genere. - Hai saputo cos’è successo ieri notte?

Scossi il capo. - Sono uscito di casa solo un'ora fa. Ieri sera con Tiziana ho fatto tardi…

- Marinella, la Risso... è morta... è stata uccisa...

Lo guardai, incredulo. - Stai scherzando?

- Un belino! L’hanno trovata stamane all’alba, giù alla Foce. E la pulla ha pinzato Fabio e lo ha accusato. Non è alle case Case Rosse, ma in questura.

Non credevo alle mie orecchie. Ci impiegai un po’ a pensare, a riflettere, a capire. - Ma l’ho vista ieri sera, Marinella, stava benissimo… - Poi qualcosa mi singultò dentro e sentii la mia voce che si spezzava in mille frammenti - Mi ha detto perfino di stare attento a Fabio… - La voce si smorzò ancora, fino al silenzio. Fu allora che il mondo mi si inceppò attorno.

Il Rosso si grattò la barba, poi si tolse l’eskimo e la sciarpa rossa che portava al collo. - L’ hai capito, nan? Lei lo ha lasciato, lui non voleva e, pazzo di gelosia, l’ha uccisa… Questa è la tesi della pulla.

Musse. - Riuscii finalmente a dire.

- Sì, musse! Primo, Fabio non ammazza manco le mosche. Secondo, men che mai per la fica. Se una donna lascia Fabio, lui guarda nella sua agenda e chiama la prossima… Lo sappiamo io, te e tutto il movimento, e anche i fasci, magari, ma la pulla no, e così l’hanno gabbato.

Non dissi che Fabio usciva già con un’altra e che voleva tenere il piede in due scarpe. - Belin! E adesso che facciamo? Qualcosa dobbiamo fare…

- Già. - Lui si grattò ancora la barba, poi si passò le mani sugli occhi - L’ho saputo mezz’ora fa. Da uno di quelli della Quarta. Era in Questura a chiedere un’autorizzazione per una manifestazione, quando ci han portato Fabio… E ho pensato che se c’è qualcuno che può far qualcosa, quello sei tu. Il Mod.

Appunto, pensai, sono io.

Presi il Vespone e corsi fino a piazza della Vittoria, dove c’è la Questura. Non che mi sfagioli l’idea di stare in mezzo ai pulotti, ma volevo sapere qualcosa, parlare con qualcuno che si occupava delle indagini… La madama in generale non ama quelli del movimento, e il movimento non li ricambia certo, ma dato che io non faccio parte del movimento alcuni pulotti mi vedono di buon occhio, perché non faccio politica attiva, e diverse volte avevo calmato le acque fra loro e i compagni, o fra i camerati e qualche manipolo di katanga. Insomma, ero visto come uno che non amava il casino. Un beat. Un capellone. Uno a parte. Uno dei Mods.

Così, chiesi al briga di turno se sapeva qualcosa a proposito del caso Carbone. Il briga scrutò ben bene i miei capelli lunghi, le basette, la camicia con lo jabod, la giacca di velluto inglese con le toppe ai gomiti e il foulard, e mi domandò che minchia c’entravo, e io risposi di essere amico sia di Carbone che della defunta, eccetera eccetera. Fui fortunato: chi si stava incaricando della faccenda era un commissario di mia conoscenza che faceva servizio nella Politica.

Si chiamava Anfuso, ma giurava di non aver alcun rapporto con l’ambasciatore repubblicano. Era un tipo sulle quaranta berrette, napoletano verace, alto e magro, con baffi sottili alla Errol Flynn e capelli imbrillantinati. Quel giorno indossava un abito grigio un po’ stazzo e una cravatta che sembrava uscita da qualche bancarella del mercato, con la punta infilata nella cintura di pelle. LC stava raccogliendo un dossier su di lui: sosteneva che avesse combattuto nella "Nembo" durante la RSI. Figuriamoci. Massimo massimo era stato nelle Fiamme Bianche.

- Professore, - mi accolse, stringendomi la mano - mi dicono che lei ha qualcosa da raccontarmi. Come va?

Lui mi chiamava "professore", e io "commissario". I nostri rapporti erano formali e gentili. Io non gli rompevo l’anima e lui non la rompeva a me. Tacitamente, ci fidavamo l’uno dell’altro. - Bene, commissario, grazie… E lei? Non sapevo che fosse passato alla Mobile… Fino a un paio di mesi fa la ricordavo alla Politica.

Lui fece cenno di accomodarmi. Ci trovavamo in uno di quei piccoli uffici della Questura utilizzati per i colloqui privati. - Non mi chieda se è una promozione o che altro, perché non saprei risponderle… Ma dica, lei sa qualcosa di Carbone?

- Non troppo, - gli risposi - ma qualcosa sì… Sperando che possa essere utile. Lo conosco dall’università, e proprio non riesco a immaginarlo come un assassino…

Lui annuì. - Nemmeno io, se è per questo. Non è il tipo. Quando siamo andati a prenderlo a casa, è cascato dalle nuvole. Saputo della morte della ragazza, poi, ha avuto una mezza crisi isterica… Però, tutte le prove lo inchiodano. A cominciare dall’arma del delitto… Un serramanico, un palmo di lama… Per come la vedo io l’assassino deve aver litigato con la Risso, l’ha picchiata e accoltellata… Ha vibrato tre colpi, due mortali… L’arma non l'abbiamo ancora trovata. Un informatore ci ha descritto il coltello di Carbone: sembra stesse sempre a giocarci. Manico di madreperla, il nome "Fabio" e una rosa nera incisi. Per caso, lo ricorda?

Era inutile mentire. Tanto valeva giocarsi tutte le carte. - Certo che lo ricordo. Lo prendevano tutti in giro, dicendo che le lame le usano fascisti e mafiosi, non i compagni…

- Beh, quella è l’arma. Scomparsa. E lui giura di non sapere dove sia finita… Nessun alibi. Dice di aver lasciato la Risso e poi di essersene tornato a casa.

Bestemmiai un paio di volte sottovoce, poi tirai fuori di tasca le sigarette e ne offrii una al commissario. Lui fece finta di non accorgersi che erano di contrabbando. Fumammo. Gli accennai quel che sapevo, lui mi fece qualche domanda, chiamò un dattilografo e mise tutto a verbale. Piacere per piacere, finito di deporre e firmati i fogli, restammo soli e lui mi chiarì la questione. Dato che Fabio non era alla Case Rosse ma in guardina in Questura, mi permise di incontrarlo per qualche minuto, il tempo di accorgermi che sembrava uno straccio, senza cintura, lacci delle stringhe, collane, orologio, un cazzo, gli avevano lasciato addosso solo jeans, camicia e maglione. Gli occhi rossi, la voce franta, la faccia spettrale come un morto. Il tempo di sussurrargli di tenere chiuso il becco e domandargli chi lo volesse mettere in mezzo. Il tempo per rispondermi a mezza bocca: "Giordano Rossi, il pappa".

Fabio era proprio nella merda, qualcuno l’aveva incastrato. Ma perché? A sentire lui, era stato Giordano Rossi. E allora, perché non dirlo a Anfuso? C’era qualcosa che non riuscivo a cogliere. Di certo, non stava tacendo per proteggerlo… Rossi era il tipo che se Fabio e i suoi compagni avessero potuto seccare sarebbero stati ben felici di farlo. Forse era per via di una delle sue ragazze, pensai. I conti tornavano. Forse Fabio aveva iniziato una relazione con una di loro, e voleva redimerla: cacate romantiche tipiche dei fessi come lui… Marinella, scoperto tutto, l’aveva lasciato… E Rossi l’aveva accoppata. Incastrandolo in quel modo. Uccidendo la sua ragazza per mettere lui nei guai… Ma che senso aveva?

Mangiai alla mensa universitaria di Via del Campo, in un casino inenarrabile. Era primavera e gli studenti, oltre a tirarsela da cervelloni e a parlare da spacci, si cacavan sotto dalla strizza per gli esami, sparando cazzate con la rapidità di un mitragliatore. I politici, invece, quelli del movimento, se ne stavano tutti a bocca chiusa, incazzati da sempre. Sommessi sommessi, parlavano di Fabio e di Marinella. Perché Fabio era un buon compagno di LC, e Marinella, pur essendo figlia di ricchi e non facendo politica, era una che ti offriva sempre mille lire per un panino e, se sguazzavi nelle peste, cercava in tutti i modi di darti una mano.

I trinariciuti mi guardavano con sospetto. Perché uno che non fa politica attiva è sospetto al tinariciuto modello. In più, c’era l’aggravante che, nel '68, mentre tutti facevano la rivoluzione, io me ne stavo nella Swinging London e questo suonava dannatamente borghese. Che loro giocassero alla rivoluzione a spese dei genitori, mentre io a Londra mi sbattevo a fare il cuoco e il cameriere era ininfluente. Quelli più furbi se ne fregavano. Gli altri mi tolleravano, anche perché, più volte, avevo impedito che qualcuno fosse sprangato e qualcun altro portato in carlina. Ma, nonostante questo, non piacevo granché ai trinariciuti. Ero un capellone, un beat che preferiva lo stile inglese alle sane tenute da onnirivoluzionario, eskimo-basco-sciarpa rossa. Ero uno dei Mods, come nella canzone di Ricky Shayne che andava un po’ di anni prima. Il mondo è pieno di fessi.

Interrogai un po’ di gente e altri interrogarono me. Nessuno credeva alla versione ufficiale. I due erano stati al Revolution, un locale per compagni, fino a mezzanotte. Sembravano un po’ scazzati, ma non peggio del solito. A mezzanotte Fabio aveva preso la Cinquefette e aveva accompagnato a casa Marinella. Quadrava con la versione del commissario: Fabio affermava di aver lasciato Marinella verso la mezza, e di esser tornato a casa all’una. Marinella era morta a quell'ora. Nessun alibi. Non parlai del coltello. Ma chiesi a qualcuno fidato se sapesse di Rossi e di una ragazza del suo giro che Fabio frequentava. Nisba. In belin che te neghe.

Uscii dalla mensa senza sapere come spendermela. Avevo appuntamento con Tiziana alle cinque, a Balbi, ma era presto, così pensai di andare dal mio amico Nanni, un tipo che finge di fare lo spedizionere nello scagno paterno.

Imboccai spedito vicoli e stradine fino al suo ufficio, in via San Luca, nel solito casino pomeridiano. Comprai un paio di pacchetti di Marloboro da un tipo che conoscevo e se ne stava in un vicolo che dava al mare. Salii lungo le scale e mi diressi nel bugigattolo di Nanni. La porta a vetri era chiusa e bussai con le nocche allo stipite. - Si può? - E poi spinsi e entrai.

- Ehi, - esclamò Nanni, alzandosi dalla scrivania, quando mi vide - ehi, parli del diavolo… Non mi prendere per un mago, ma appena hanno passato la notizia dell’arresto di Carbone ho subito pensato a te!

Ci stringemmo calorosamente la mano. Lui mi fece cenno di sedere e si lasciò andare sulla sedia. Nanni era un bel pezzo d’uomo, sulla trentina, lunghi castani a ricci da Black Panter, basettoni alla Mungo Jerry, occhi verdi. Fumava nervosamente una sigaretta dopo l’altra, ma aveva ancora il fiato per giocare a pallone. Nanni non faceva un cazzo di niente, nella vita, ma dato che era un dannato pettegolo sapeva sempre tutto di tutti. Avevo l'impressione a volte che fosse un broccoliere della madama o un agente della CIA.

- E anch’io ho pensato a te. Ho da chiederti alcune cose… che nagari conosci. Ma segrete… Perché sennò ci finiamo di mezzo io, e poi Carbone.

- Puoi scommetterci.

Posai il culo su una sedia. - Che ne sai di Giordano Rossi, il pappa?

Nanni fece una smorfia. - Poco. Perché?

- Fabio pensa che sia lui ad averlo incastrato… E questa è la notizia segreta. - Gli raccontai il resto.

Nanni mi ascoltò e poi disse: - Un bel pastrocchio, se c’è di mezzo Rossi. E’ un tipo loschissimo, sulla trentina, romano, precedenti per sfruttamento della prostituzione e cose del genere. A Roma l’aria stava diventando calda e, allora, se ne è venuto qui, dove conosceva un altro delinquente di mezza tacca. Assieme hanno messo su un giro di squillo… Naturalmente non c’è uno straccio di prova manco a pagarlo. Adescano ragazzine e le mandano ai clienti, ma si tratta di ragazzine insospettabili, studentesse universitarie, per la maggior parte, commesse di negozio, impiegate che magari fanno arrivare da fuori. Capisci il gioco? Un pomeriggio di trasferta e la ragazza si tira su un pacco di grana, che va per la maggior parte a Rossi, chiaro…

- Che schifo.

- Puoi dirlo forte. Anche perché dopo subentra il ricatto. Se una volesse mollare dopo aver fatto un paio di giorni, la costringono minacciando di raccontare tutto in giro. Ma non succede. La Genova-bene copre i suoi affaracci in modo esemplare…

Salutai e me ne tornai a Balbi. Un paio di tizi della Quarta vendevano il loro bollettino davanti all’entrata. Dentro, l’androne grigio e umido era pieno di gente che cazzeggiava discutendo di esami e dell’imminente quanto trionfale rivoluzione. Le pareti erano sozze e scrostate, piene di tazebao manifestini e foglietti. A giudicare dall’odore, qualcuno si stava facendo un joint, ma non riuscii a capire chi fosse. Il custode si era già barricato nel suo loculo. Un poliziotto infiltrato con l’aria da studente se ne stava a chiacchierare con una ragazza, sotto lo sguardo indignato dei politici che non capivano se anche lei fosse uno sbirro, un’informatrice o una semplice pollastra. Allungai un po’ le orecchie in giro, salutai qualcuno. Molti parlavano di Fabio. Un tizio di LC arringava un gruppetto di ragazzi a proposito della questione. Io continuavo a pensare a Rossi, e non sapevo che fare.

Finalmente arrivò Tiziana. Lungo maxi zafferano scuro, stivali scamosciati, abito mini e optical comprato in qualche boutique di Milano, che a Genova te lo sognavi, con semicerchi marrone, verde e terra bruciata, e per finire un cinturone di cuoio alto cinque dita e il medaglione del Tribunale Russell al collo. Tiziana aveva ventidue anni, la pelle chiarissima, i capelli biondissimi acconciati in un grazioso caschetto che pareva Caterina Caselli, le ciglia finte e un paio di pendenti che doveva esser stato Salvador Dalì in persona a progettarli, con quel moto perpetuo di anelli a ogni passo. Abitava a Milano, ma era venuta a studiare a Genova. Quando le avevo domandato perché aveva risposto evasivamente: dopo il primo anno alla Cattolica si era stancata del clima milanese. In realtà avevo saputo che frequentava quelli del Ponte della Ghisolfa, conosceva il povero Pinelli e Valpreda, e quando era iniziata la repressione aveva pensato bene di alzare i tacchi. A Genova viveva con una zia a San Fruttuoso e, sebbene avesse preso contatto con gli anarchici del Ferrer, stava lontana dalla politica. Era un paio di mesi che uscivamo assieme, da quando cioè ci eravamo incontrati alla festa di capodanno organizzata da LC a favore delle fabbriche occupate.

Mi vide. Mi baciò. Un profumo molto secco saliva dal suo viso, dai suoi capelli. - Ehi, - mi disse - che aria imbronciata!

L’abbracciai. - C’è un po’ di casino… Hai visto, no?

- Sì, - rispose lei - non si parla d’altro in giro. La Risso… E Fabio. Lei,l’avevo vista un paio di volte, ma Fabio…

Vidi che qualcuno mi scrutava. La presi per mano e dissi: - Filiamo via di qui.

Ci incamminammo verso via Gramsci, il porto. - Fabio, - stava dicendo - non posso credere che sia stato lui. E’ una bravissima persona, lo vedevo spesso a Balbi… Non è possibile che abbia ucciso la Risso…

- No, infatti. Non ci crede nessuno, però ci sono le prove…

Tiziana cominciò a raccontarmi qualcosa, ma la mia attenzione era da tutt’altra parte. Lei se ne accorse e mi scosse: - Se ti annoio, posso tornarmene a casa…

Le diedi un bacio: - Scusa. Ma ho la testa piena di cose. Ho visto Fabio e…

- Potresti anche raccontarmi quello che pensi, sai? Ogni tanto ti farebbe bene.

Feci una smorfia. - Certe cose preferirei non dirtele…

- Temi che mi spaventino?

- No, che ti portino guai.

Lei rise: - Correrò il rischio. Portami a prendere un moscato in quell’osteria giù a Sottoripa…

Dopo aver accompagnato Tiziana a casa, me ne tornai dalle mie parti. Feci un salto in latteria e poi m'infilai nel portone di casa. Entrai. Sotto la porta c’era una busta. La classica busta anonima, senza francobolli, indirizzi, timbri. Sogghignai fra me e me. La fortuna stava girando. Posai il culo sulla poltrona e cominciai a leggere.

La lettera era scritta a macchina. Chi scriveva si presentava come "un collega" e si rivolgeva a me perché mi sapeva persona onesta: non gli andava che una certa questione rimanesse irrisolta. In pratica, diceva il tizio, un mese prima era stato pagato da Marinella Risso. Lei aveva scoperto che Fabio la tradiva con un’altra, e voleva sapere chi fosse. La ragazza in questione si chiamava Francesca Pagli: una squillo di Giordano Rossi. A questo punto, la Risso voleva inchiodare Fabio, ma aveva bisogno di qualche prova, dal momento che lui non avrebbe mai creduto di farsela con una bagascia. Ma lui si era tirato indietro, attorno a Rossi si diceva ci fosse un giro più pericoloso, tipo droga e armi. La Risso, allora, aveva detto che si sarebbe arrangiata da sola, aveva saldato il conto e non si erano più visti. Poi, quella mattina aveva saputo della sua morte. E poiché lei gli aveva detto di conoscermi, aveva pensato bene di passarmi le informazioni. Era tutto quanto poteva fare per Marinella.

Non dormii molto, quella notte. Non sapevo che pesci pigliare. Visti i soggetti con cui avrei avuto a che fare, forse era meglio trovarsi una pistola. Pensai di chiederlo ad Arturo, mio amico fin da bambino, dal momento che suo padre era stato partigiano assieme al mio. Solo che ad Arturo a un certo punto si era rotto il belino di una rivoluzione fatta a parole e frequentava il gruppo di Ordine Nuovo, non quello un tempo guidato da Rauti, e tornato nel MSI, ma quello in mano a Lello Graziani. Chiamai casa sua e la madre mi rispose dicendo che non c’era e l’avrei trovato (purtroppo, aggiunse) con i suoi amici, a Albaro a prendere il gelato. Arturo diceva sempre dove andava, dopo che ad aprile Ugo Venturini era stato ammazzato negli scontri di piazza seguiti al comizio di Almirante. Una cosa orrenda. Con tutto il seguito, che mia zia era andata al funerale ed era scoppiata una bega anche lì. Da allora la gente aveva sempre un po' strizza. Me ne andai nel bar che sapevo, dove si riunivano tutti gli albarini figli di papà, e le fighette gli svolazzavano attorno. Gli albarini erano divisi in rossi e neri e io non sapevo chi fosse peggio. Guardarono male me, perché sebbene non fossi un rosso o un nero ero comunque un Mod, e io guardai male loro perché erano stronzi figli di papà che se ne stavano a discettare gli uni di Nietzsche e gli altri di Marx e nessuno aveva un padre che tirava la carretta, altro che ridere. A parte c'era Arturo che se ne stava con un altro tipo di ON a chiacchierare. Che diavolo ci facesse in mezzo agli albarini non lo sapevo, comunque spiccava più che mai. Capelli cortissimi biondi, giubbotto dell’aviazione, camicia militare, cinturone nero. Gli dissi che dovevo parlargli. Ci allontanammo a piedi verso Corso Italia, giusto per non dare nell’occhio. Dopo che gli ebbi spiegato la faccenda, mi disse che pistole non se ne vedevano in giro da un pezzo, ma che andassi a Shangai, lì per un po’ di aragoste l’avrei trovata. Se io avessi delle aragoste, risposi, pensi che me ne andrei in giro con il Vespone marcio o la Cinque Fette che scurressa e uno di questi giorni ci resta? Lui rise, poi mi aggiornò. Si dice che tu stia cercando di salvare il culo a Carbone, cosa che ha allertato molta gente convinta della sua colpevolezza. E allora? E allora stai all’occhio, perché io rispondo dei miei amici, non degli altri. Gli chiesi se sapeva nulla di Rossi e di una certa Francesca Pagli. Gli spiegai la faccenda. La Pagli, mi disse, era una fighetta che pareva la desse a pagamento ai ricchi e ai matusa e gratis a nessuno. Abitava in Albaro, dalle parti di piazza Leo. Che la desse a Carbone, e magari gratis, era sconcertante e lui non ci credeva. Restammo d’accordo che l’avrei avvisato di qualunque cosa fosse accaduta. Lui mi disse che se avevo bisogno di aiuto, bastava chiamare. Diversa gente voleva fare secco l’assassino di Marinella, chiunque fosse. E se pure era un Mod, a muovere il culo, gli avrebbero dato una mano.

Alla fine andai da mio padre. Non sapevo bene come mettergli giù la faccenda, ma sapevo che dopo il '45 aveva imboscato delle armi. A quell’epoca, i caramba davano metà di mille lire ai partigiani che li conducessero in qualche deposito, e rinvenute le armi, gli davano l’altra metà. Mio padre era stato partigiano, di quelli che avevano subito preso la via delle montagne, mica gli attendisti che se ne erano rimasti con il culo coperto, ma quando si era trattato di restituire le armi si era ben guardato dal farlo, sicuro che prima o poi sarebbero servite. Della Resistenza non parlava mai, neanche con il tono epico dei partigiani dell’ANPI. Diceva che era stata una guerra sporca fra italiani, con l’aggiunta di tedeschi e alleati: questo era il massimo che gli si potesse cavare di bocca. Tutto lì.

Così pigliai il Vespone e corsi fino a Vernazzola. C’era il sole, e mio padre, basso, tozzo, abbronzato, addosso i vestiti da pesca, se ne stava sulla spiaggia a riordinare la barca. Il mare era un po’ mosso, e spirava una bella brezza di tramontana. Qui si poteva davvero sentire l’odore del mare. Acquattati tra le reti e le nasse, i gatti aspettavano pazientemente che i pescatori tornassero con il loro carico.

Mio padre mi vide, mi abbracciò. - Ogni tanto ti fai vedere…

- Mi serve una pistola, pà.

Lui mi guardò un po’ sconcertato, poi ci rise sopra: - E che ci devi fare? Un attentato, una rapina o ti serve per legittima difesa?

- Legittima difesa…

- Fascisti? - Sogghignò. Era uno dei pochi che non scorgesse fascisti pronti a colpire in ogni luogo, forse perché aveva fatto tante volte da bersaglio da non riuscire più a prendere le cose sul serio.

- No, delinquenti comuni...

- Ti hanno minacciato?

Lo guardai. Era il caso di raccontargli tutto o no? No, era il caso di raccontargli una mezza verità in cui, comunque, c’entrava Fabio, e io gliela imbastii. Mio padre cambiò espressione cinque o sei volte, poi disse: - Aspettami a casa.

A casa non c’era nessuno, né mia madre né mio fratello. Me ne restai a pensare, fino a quando lui non tornò dopo una mezz’ora. Teneva in mano un sacchetto di plastica, da cui tirò fuori un involucro di stracci unti d'olio. Quando lo aprì, dentro c’era una pistola nera e una scatola di metallo. Lui mi piantò gli occhi in faccia. - E’ una Luger, di quelle della Wehrmacht, vedi? Sulle guancette c’è incisa la croce uncinata. E’ la mia pistola di quando ero sui monti, quindi vedi di riportarmela indietro. Sai usarla, vero?

- No. A militare non mi facevano usare la Luger.

- Appunto. Vedi com’è utile fare il soldato?

Mi fece vedere come si apriva, come si sfilava il caricatore; dalla scatola di metallo prese una manciata di pallottole e le infilò nel caricatore. Mi mostrò come si infilava dentro, la sicura e tutto il resto. Poi disse: - Questa è un’arma da guerra… Se ti prendono vai dritto in galera, e poi... anche se non fai politica e nessuno sa da che parte stai… Quindi, vedi di non farti beccare. E usala solo se necessario. Non è bello ammazzare la gente.

Uscii con la Luger infilata sul culo, dentro il cinturone. Di colpo mi sentivo grande forte e coraggioso.

Me ne tornai a casa. Stavo mangiando un panino quando sentii squillare il telefono. Alzai la cornetta e udii la voce di Tiziana: - Ciao, sono io. Ho pochissimo tempo… Lui è andato alla toelette, ora torna.

Guardai la cornetta stupefatto: - Cosa?

- L’ho agganciato. Rossi, voglio dire. Gli ho girato un po’ attorno al Garden, e ora stiamo prendendo l’aperitivo al Baretto. Mi ha detto che, visto che non sono di Genova, mi avrebbe fatto vedere la città dal Righi… Ha una Dino spider blu… Eccolo, ciao!

Riappese. Fissai la cornetta, cercando di realizzare bene quello che mi aveva detto… Tiziana aveva agganciato Rossi? Mi reinfilai la Luger sul culo, il tirapugni in tasca, e saltai come un siluro sul Vespone… Arrivai al Baretto con il cuore nei tacchi, sperando di incocciare in qualcuno che conoscevo e mi desse una mano, ma la Dino blu era ancora ferma davanti ai tavolini dove Tiziana e Rossi stavano bevendo. Avevo il culo che non ci passava neanche un’aguggia dalla strizza, quando rallentai e, facendo finta di niente, diedi un’occhiata. Tiziana indossava stivali neri, una mini cortissima, una camicia psichedelica e un giubbotto nero, Rossi era un tipo sulla quarantina, del genere jeans attillati, mocassini lucidi, camicia aperta sul pelo, crocefisso d’oro, RayBan con le lenti azzurre e giacca da fico. Capello castano un po’ imbrillantinato, faccia lubrica da pappone vecchia maniera. Pensai se piazzargli un proiettile nel cranio e poi scappare, o lasciare che accadesse qualcosa, ma mi tremavano le mani… Che cazzo! Tiziana non aveva proprio niente di meglio da fare quel giorno?

Passai i peggiori dieci minuti della mia vita guardandoli, poi li vidi uscire e salire sulla Dino, che sgommò di gran carriera. Io dietro, con il Vespone, coperto sempre da un paio di auto per non dare nell’occhio, ma pronto a bruciare semafori e a non farmi distanziare. Quando li vidi imboccare in piazza Manin la strada per il Righi, ero già in un bagno di sudore. Rallentai ancora, ma fortunatamente un paio di vespisti e una Simca si interposero fra me e la Dino… Cazzo, non ero mai stato così male in vita mia…

Rossi fermò la Dino sul belvedere delle mura del Righi, io proseguii assieme ai vespisti, mi fermai più in là, allo sterrato che porta al Forte. Saltai giù con la pistola in mano e corsi acquattato fra gli alberi e i cespugli che se passavano i celerini mi inchiodavano contro il muro senza fiatare. M’imboscai dietro gli alberi: davanti a me stava la Dino, i monti attorno al Fasce, qualche pezzo di città, ma non vedevo cosa stava succedendo… Se sapevo come va il mondo, fra dieci secondi Rossi avrebbe allungato le mani e fra quindici Tiziana avrebbe urlato e cercato di scappare… Stavo immobile, quasi senza respirare. Tolsi la sicura alla Luger, feci scivolare il colpo in canna, strinsi più forte l’impugnatura… Sentii gridare… Balzai fuori dal mio nascondiglio, appena in tempo per vedere Rossi che urlava e schizzava via come una molla… Poi uscì Tiziana. Teneva in mano un coltello a serramanico…

Rossi stava sagrando a tutto spiano, tenendosi la mano destra sanguinante, poi mi vide e fece un gesto verso la tasca dei pantaloni come a voler prender qualcosa.

- Fermo! - Urlai, puntandogli la Luger addosso - Non ti muovere!

Lui mi guardò. Poi guardò lei. - Che cazzo, tu e ‘sta puttana mi avete incastrato… Se vuoi dei soldi…

- Fermo! Alza le mani e non ti muovere… Fermo così o ti buco… Stai fermo, coglione, non muoverti…

Rossi arretrò di un passo. Cambiò tono di voce, guardava la pistola. Portò le mani alla testa: - Ehi, calmino, capellone… Statti calmo con quel ferro… Ohi, calmo… Se vuoi la grana o la roba ci accordiamo…

Feci un gesto a Tiziana, che stringeva ancora in mano il coltello: - Stai di lato e non muoverti… Non ti avvicinare…

Rossi tirò un respiro che pareva un bue. - Ok, non è successo niente va bene? Mi hai voluto mettere in mezzo e…

Mi avvicinai ancora. Non era come quando sei pronto a picchiarti con uno, tu e lui soli, in palestra o per strada. Quando hai una pistola in mano la prospettiva cambia. Sei tu che dirigi il gioco, ma fino a che non l’avessi disarmato non mi sarei sentito tranquillo: - Fermo… Non ti muovere. Se fai una mossa ti buco.

Rossi cominciava a vedersela brutta. - Vuoi dei soldi? No? E allora che cazzo vuoi?

Gli scivolai dietro. Aveva una lama nella tasca della giacca. Gliela tolsi e me la infilai nel cinturone. Poi gli girai attorno: - E adesso fila. E non ti azzardare a sfiorare ancora la mia ragazza…

Lui mormorò: - Puttane così ne trovi…

Mi avvicinai e lo colpii con il calcio della Luger sulla bocca, ed ebbi la soddisfazione di sentire qualche dente che partiva, poi gli diedi una ginocchiata nei coglioni e lo stesi a terra. - Stai attento alla tua prossima mossa, buliccio, perché questa volta ti lascio stare, ma la prossima ti apro il culo con il tuo coltello…

- Bastardo, - mormorò, cercando di alzarsi - sei morto, appena so chi sei, sei morto…

Gli tirai un calcio nello stomaco, poi mi avvicinai alla Dino, presi la chiave dell’accensione e la buttai giù dal belvedere. Mi voltai verso Tiziana: - Filiamo…

A casa della zia di Tiziana chiamai un po’ di gente che non erano trinariciuti ma persone fidate che odiavano i pappa e gli stronzi. Alcuni si sistemarono nell’atrio, un altro paio sul pianerottolo, qualcun altro davanti al portone. Non sapevo se avevano armi, ma era sempre meglio di niente.

- Un’ottima idea, - Mormorai - davvero. Ora mi sono scoperto e sono sulla lista nera, e questo finché non mi secca non è tranquillo. E sei nei guai anche tu. L’hai offeso nell’orgoglio, l’hai sedotto, e poi non ti sei concessa…

Tiziana se ne stava beatamente seduta sul divano. Fumava una Marlboro e tirava boccate con soddisfazione. - Pensavi che ti lasciassi fare tutto da solo? Quando mi hai parlato di questo pappa, ho pensato che avrei potuto farlo uscire allo scoperto… Se tu non fossi intervenuto, sarei riuscita a entrare in confidenza con lui e scoprire qualcosa…

- Se non fossi intervenuto, - osservai - come te la cavavi, me lo spieghi? Questo ti prendeva e ti saltava addosso…

Tiziana sorrise e in un baleno sentii lo schiocco del serramanico, la lama davanti alla faccia. - Mi è saltato addosso… Vedi, Milano non è una città semplice… Viverci ti insegna a cavartela da sola…

Guardai la lama. - Aveva anche lui un coltello, e magari lo usa meglio di te...

- Ora ce l’hai tu… L’ hai visto? E’ un coltello d’osso sardo, una bella lama… Chissà da dove viene…

- Ed è la cosa più stupida… - Mi fermai e guardai il coltello - Un momento… Dammi quel coltello. Il tuo, dammi quel belin di coltello…

- Che c’è?

- Il coltello… - Lo presi. Era simile a quello di Fabio, un serramanico di madreperla con una rosa nera intagliata, solo che c’era inciso "Tiziana" lungo il manico. - Dove l’hai preso?

Sorrise. - Me l'ha regalato un mio amico di Milano, prima che me ne andassi. Eravamo a Pavia, c’era una coltelleria dove incidevano i nomi…

Guardai ancora il coltello, poi il viso adorabile di Tiziana, feci due più due e tutto mi fu maledettamente chiaro: se volevo salvare il culo a Fabio, ma anche la pelle mia e di Tiziana, dovevo giocarmela bene e velocemente. Se ci davo una botta e se non mi scoppiava sotto il culo, con la Cinquefette ce l’avrei fatta ad andare e a tornare da Pavia in giornata.

La sera telefonai a Francesca Pagli. Fortunatamente era in casa: gli dissi che non mi conosceva, ero un amico di Fabio con un messaggio per lei. Lei negò di conoscerlo. Le ripetei che ero un amico di Fabio ed ero andato a trovarlo in collegio. Come sopra. Aggiunsi che avevo una cosa che Fabio le aveva regalato e che lei aveva perso, qualcuno l'aveva ritrovata e, fatto due più due, ora voleva sbarazzarsene. Afferrò al volo. Le diedi nome e cognome (falsi) e indirizzo (altrettanto falso) e preparai la trappola, sperando che non si chiudesse sotto di me.

Francesca mi stava di fronte. Bella, bellissima, una splendida ragazza alta e bionda. Uno schianto Indossava un abito mini blu, scarpe con il tacco e un maxi di pelle. L’idea che la desse a Fabio era strana, quella che la desse a pagamento ad altri, inquietante. Eravamo in un magazzeno in piazza Valoria, giù dai Giustiniani, e lei non mi lasciò tempo di dire nulla: - Cosa vuoi?

Parlare.

Mi si avvicinò con un incedere sensuale, ammiccante, molto sexy se sei il tipo che ci casca. Io, in quel momento, pensavo solo a come tirar fuori la ghirba. - Parlare di cosa… E perché qui? Non sarebbe stato meglio da te?

Mi avvicinai a uno dei mobili ammucchiati, aprii un'anta, tirai fuori il coltello e lo feci scattare con un colpo secco: - Stai cercando questo?

Lei sobbalzò e guardò l’arma, sgranando gli occhi.

- Eccola qui l’arma del delitto… Quella che Fabio ti ha regalato. Tu l’hai passata a uno dei tuoi amichetti che con tre coltellate ha inchiodato Marinella. Ignoro se ci siano ancora le impronte digitali, ma vedrai che alla Scientifica scopriranno di certo qualcosa… E come vedi, io porto i guanti. Non lascerò impronte.

Francesca mi guardò incredula: - No, non è vero… Non è andata così…

Feci qualche passo verso di lei e le puntai contro la lama. - Non è vero? Lo dici tu. Me la immagino la scena, tutta, come in un film… Fabio e Marinella escono dal Revolution, qualcuno li vede e ti avvisa… Lui accompagna Marinella a casa, tu la chiami, le dici che devi parlarle, e le dai appuntamento alla Foce. Il tuo amico va e la uccide… E' andata così, no? Perché aveva una dannata paura che lei, per riprendersi Fabio, mettesse il naso in faccende ancora più sporche della prostituzione, vero?

- No, - mormorò, pallidissima - Non è vero niente…

Le sventolai il coltello davanti al naso. - Ma i tuoi amici sono fessi e, quando per caso, alla Foce passa la solita ronda che controlla la zona si cacano sotto, scappano e gettano in un cespuglio questo coltello, che sarebbe dovuto finire invece in casa di Fabio. Coltello che arriva in tasca mia… Ti piace la mia ricostruzione?

Lei stava ancora per negare, quando all'improvviso la porta del magazzeno cigolò, la saracinesca si alzò e tre uomini s’infilarono dentro. Avevano delle micche niente male. Uno impugnava un coltello a scatto, il secondo un rompitesta, il terzo un tirapugni di quelli francesi. Se non fossi stato armato, sarebbero stati cazzi.

- Ok, capellone, - esordì minaccioso il primo - dammi quel coltello e dimenticati tutto, e vedrai che ti andrà bene…

- Ehi, - gracchiò il secondo - guardate un po’ questo bel tipo tutto infiocchettato… Non vi sembra quello che ha menato il capo, quello che dovevamo fargli il lavoretto?

Il terzo mi fissò in silenzio, poi disse: - Sì, è vero…

- Due piccioni con una fava… Facciamo sparire quell’affare che ha in mano, e poi lo sacchettiamo di botte…

- Un momento, - intervenne il secondo, quello che sembrava il più furbo - Se è lui quello che cerchiamo, il capo ha detto che ha una pistola…

Silenzio. Francesca arretrò verso un lato del locale. Io sorrisi e non dissi nulla. Non ebbi neanche bisogno di tirarla fuori la pistola, perché esattamente mezzo secondo dopo il magazzeno si riempì di celerini guidati da Anfuso: - Mani in alto! Polizia! Buttate giù i ferri… Non muovetevi!

Nel trambusto presi la pistola e, con un calcio, la spinsi il più lontano possibile da me. Chi cazzo avesse avvertito la madama, me l’aveva proprio fatta bella… Mi aveva tolto tutto il gusto della sceneggiata…

- Oh, vediamo chi c’è qui, - disse calmo il commissario Anfuso, avvicinandosi con la pistola spianata - una bella riunione… Il professore con un coltello in mano, una delle ragazze di Rossi, e un gruppetto di delinquenti con armi improprie…

Io tenevo le mani alzate e sorridevo. - Ecco l’arma del delitto, commissario… E se guarda bene fra i piedi di ‘sti malemmi, troverà altro che armi improprie… Ma che ci fa qui lei?

Lui sorrise: - Ieri Rossi è stato aggredito e picchiato da un tipo. Abbiamo pensato a qualche avvisaglia di guerra fra bande. Quando questi tre furboni sono usciti di corsa, avevano un paio di noi alle costole…

Un celerino raccolse la pistola, la soppesò, disse: - Luger, commissario… E’ una di quelle dell'ultima guerra…

I tizi protestarono, ma Anfuso non li prese neanche in considerazione. Si rigirava la Luger fra le mani, sorridendo: - Armi improprie, armi da guerra, minacce, perché abbiamo sentito tutto... e poi anche tentato omicidio eh? E l’omicidio della Risso. Se scaviamo un po’ chissà che altro c’è ancora…

Il tizio che pareva furbo disse, mentre lo ammanettavano: - Quel bastardo! Ce l’ha messa lui la pistola… E anche il coltello! Non è quello vero… E’ finto! Ci vuole incastrare!

Consegnai il serramanico ad Anfuso. Anfuso lo prese e si voltò verso il tipo: - A ‘Peppì, io e te ci conosciamo bene. Se continui, lui ti denuncia anche per tentato omicidio e questo ti aggrava la situazione… Statte’ zitto e pensa che è il tuo Rossi che t’ ha incastrato…

Insomma, la situazione si sbloccò presto. Il Lavoro uscì bruciando il Secolo e il Corriere con un’edizione speciale già nel pomeriggio, in cui si raccontava tutto, si spiegavano alcuni lati oscuri della faccenda, con grandi fotografie di Fabio tutto sorridente e perfettamente riabilitato che se ne usciva dalla Questura in mezzo ai suoi compagni che lo aspettavano fuori. E anche l’indomani bruciò la concorrenza, aggiungendo ai servizi sull’arresto degli assassini della Risso anche la misteriosa morte di un tale Giordano Rossi, uomo di malaffare e gestore di un giro di prostituzione, saltato in aria quando aveva acceso la sua Dino Fiat. Il mio nome non comparve da nessuna parte, anche se Lotta Continua l’indomani parlò di un misterioso intermediario infiltratosi nell’operazione, forse un provocatore fascista. Ci furono altri arresti, incriminazioni, verbali da firmare. Ma io avevo ancora qualcosa da sbrigare.

- Papà, ho perso la tua pistola.

Mio padre alzò le spalle. Era seduto al tavolo della cucina, e aiutava mia madre a pulire le arselle e i muscoli per la pasta. Sul tagliere c’erano un casino di acciughe belle fresche, che mi facevano venir fame a guardarle.

- La tua pistola, pa’, mi dispiace… Ma quando è arrivata la madama, se mi brincavano con quel cannone in tasca… L’ho mollata nei piedi agli altri. - Sospirai - La tua pistola di quand’eri partigiano... Era un ricordo, ha viaggiato con te per tutto il tempo della Resistenza…

Mia madre sorrise. - Ma tu gli credi ancora?

Mi voltai verso di lei: - Come, ma?

- Con tutte le storie che ti ha raccontato…

Sgranai gli occhi. - Vuoi dire che…

Mio padre rise. - E secondo te io avrei lasciato la mia pistola di partigiano, quella che m’ha salvato la vita, a uno come te che perde tutto per strada? Macchè, quella era una pistola che tenevo lì per bellezza… Non sparava neanche! Ce ne avrò dieci in cantina, così...

Un brivido freddo mi percorse da cima a fondo: - Vuoi dire che quella pistola…

- Era una vecchia Luger che sequestrammo assieme a una partita di armi. Ce la diede un tedesco, un anziano caporale della Wehrmacht spedito qui, in Italia. Io e il padre di Arturo lo lasciammo andare, figurati, questo voleva tornarsene in Baviera ai suoi pascoli e si preoccupava delle mucche, altro che guerra! A Natale mi manda sempre gli auguri…

Secondo brivido freddo. Ero indignato: - Io ti chiedo una pistola e tu me ne dai una che non sai neppure se funziona! Ma ti rendi conto che me ne sono andato in giro con un’arma da guerra, roba da finire in galera, e che non funzionava?

Mio padre rise. Mi battè una mano sulla spalla. - Sei grande grosso, hai imparato la savate e fai bene a pugni e adesso pratichi anche la lotta giapponese. A Londra sei finito negli scontri fra quei belin di mods e rocks e ne sei uscito sempre vivo. Tu non sai usare una pistola. Se ti do una pistola che spara, sei capace di sparare e ammazzare qualcuno che magari non c’entra… Ma se invece ammazzi quello giusto, vai comunque dentro. E peggio ancora dopo il primo colpo ti viene in mente di spararne un secondo. La pistola… La pistola va mostrata e basta. Hai le mani, ti bastano quelle. Cosa te ne fai di una pistola? I tedeschi non ci sono più, e i fascisti di adesso non sparano. Ti è servita quella pistola? L’hai tirata fuori? Sì, perché è sparita. Com'è sparita?

Glielo raccontai. Mio padre e mia madre risero come matti. Alla fine lui disse: - Vedi? Una pistola che spara non ti serve. E speriamo che non ti debba servire mai… Ma se un giorno ne avrai bisogno, allora te la darò.

Uscii. Fuori Tiziana, appoggiata al Vespone, mi aspettava, godendosi il sole.

Disse: - Glielo hai detto?

Annuii. - Sai cosa mi ha risposto? Che la pistola forse non sparava neanche. Ma che se un giorno avrò bisogno di un’arma, me la darà…

Tiziana rise. - Speriamo che quei tempi non vengano mai. E ora baciami. E’ da un’ora circa che non lo fai...

La baciai. Lì non era come in centro. Eravamo a Vernazzola: arrivava dal mare un’aria carica di salino, potevi respirare il salmastro sulle barche, sulle case, sul molo. Un gatto nero e ben pasciuto dava zampate a una nassa che il vento di mare non cessava di scuotere.