Le falde sbottonate dell’impermeabile scendono larghe. L’incedere ha un tocco di indolente eleganza. Lo sguardo pare concentrato su un problema di lavoro, oppure a una moglie lontana, a un capoufficio noioso, a un’amante da raggiungere. Magari a un figlio. Nessuno si sofferma a cercare di decifrarne l’espressione, di indovinarne i pensieri. È un uomo come tanti, con un impermeabile chiaro, che si confonde tra innumerevoli altri e cammina tra la folla di un sabato pomeriggio plumbeo e freddo, reso appena più colorato dalle prime luminarie natalizie. Una folata di vento gli scompiglia per un istante i capelli, l’uomo se li ravvia con la mano, in modo distratto.

L’altra mano stringe una valigetta di pelle scura, una presa sicura, forte. Perché la valigetta è pesante. Si muove con passo deciso per via Alessandro Manzoni. Deve percorrere solo poche decine di metri. Si è fatto lasciare in prossimità dell’obiettivo da un taxi, consapevole che questo, dopo, avrà la sua importanza. Probabilmente si è fatto notare, ma gli hanno detto di stare tranquillo, non ci saranno problemi. Perché lui assomiglia a un altro. Uno che dovrà risultare colpevole. Deve solo attenersi al piano e andrà tutto bene. E lui si fida.

Studia la situazione, osserva le persone che lo circondano, preferirebbe trovarsi in una strada mezza deserta. Per istinto, lui ha sempre odiato la confusione, ha sempre cercato di evitarla; però non ci si può fare niente con le feste natalizie che incombono, e gli hanno detto che tra la folla è meglio, perché trovarsi tra tanta gente è come essere da soli. Nessuno nota niente, nessuno vede. E se vede, dopo ricorda male. Magari, con un piccolo aiuto, ricorda ciò che gli si vuol far ricordare.

Controlla la posizione delle lancette sull’orologio da polso. Deve fare presto.

Molto presto.

L’uomo si specchia per un attimo nel riflesso di una vetrina, e quasi gli dispiace la rassomiglianza che ha colto con la figura rassicurante di un giovane uomo d’affari.

Non è così che si sente, mentre osserva con distacco, come da dietro uno schermo, l’affannarsi caotico delle persone sui marciapiedi. I sensi sono all’erta, registrano tutto con una sensibilità esasperata dalla tensione.

Un popolo di formiche, pensa. Una massa di individui grigi, incapaci di sollevare lo sguardo da terra, concentrati nel frenetico appagamento di vacue necessità materiali.

Avverte la sensazione gradevole di scivolare lieve come un’ombra tra quelle esistenze stolide, stringendo la valigia pesante.

Una 2CV rossa si affianca al marciapiede. La portiera del lato passeggeri si apre con un cigolio e uno schiocco di lamiere non lubrificate; scende un individuo giovane dalla chioma fluente. L’uomo lo osserva e per un istante stenta a realizzare se si tratti di un maschio o di una femmina. Il giovane lo urta e non si scusa, si allontana con un’andatura altalenante, le mani ficcate nelle tasche di un giubbotto poco pulito, il bavero con la pelliccia rialzato a proteggersi dal freddo.

La piazza gli si mostra quasi all’improvviso, appena svoltato l’angolo con via Beccaria: anche lì c’è confusione e ormai è certo che davvero sia meglio così. Con uno sguardo circolare, rapido, stabilisce che è tutto nella norma. L’entrata della banca è a poche decine di metri, vi si dirige con passo deciso. Non sente più il peso della borsa, ora il cuore pompa con forza il sangue nelle vene e deve ricorrere alla sua autodisciplina per regolarizzare il respiro.

E’ la lotta del sangue contro l’oro, si ripete quasi ossessivamente.

Il sangue contro l’oro.

Incrocia un uomo anziano sulla soglia, lo lascia uscire e quello lo ringrazia con un cenno del capo, poi si introduce all’interno.

E’ dentro.

La banca è ancora gremita, si mescola alla folla e si avvicina al grosso bancone centrale, come se dovesse compilare una distinta. Nessuno gli bada, tutti sono indaffarati, ci sono affari da concludere, transazioni e versamenti da effettuare. Il tempo stringe, le voci si mescolano concitate.

Anche lui deve compiere un’operazione importante e deve eseguirla con calma e precisione.

Si sorprende a pensare che certi gesti restano davvero banali, anche quando si sta scrivendo la Storia.

Ha lasciato la borsa a terra, sotto il bancone. Si accorge che la mano è quasi indolenzita perché la presa, negli ultimi istanti, è stata spasmodica.

Spinge la valigia col piede, un po’ più avanti, spostandola in diagonale, allontanandola da sé. Finge di compilare una distinta di versamento, ma l’attenzione è tutta concentrata a quanto avviene sotto al tavolo. Centimetri e minuti che scorrono lenti, mentre il cuore martella in gola.

Sta sudando, eppure il pomeriggio è freddo.

Ecco, ora deve solo allontanarsi. Nessuno lo nota, si sente invisibile, ma non è così. Avverte uno sguardo posarsi su di lui, il suo istinto gli fa rallentare il passo e irrigidire la schiena.

Si volta e individua un paio di grandi occhi neri, malinconici, che lo fissano da una delle code agli sportelli. Appartengono ad un ragazzino, in attesa paziente, quasi rassegnata, col padre. Forse si sta solo annoiando. Forse dovrebbe sorridergli, fingere una simpatia che non prova e allontanarsi, farsi dimenticare, lasciarsi tutto alle spalle. Lo assale il dubbio che quegli occhi lo abbiano seguito fin dal momento della sua entrata, e sente la bocca asciugarsi al pensiero che possa segnalargli la valigetta abbandonata. Vince l’impulso di mettersi a correre, ma non riesce a staccare lo sguardo dal bambino. Si sente denudato da quei due occhi così grandi, sgranati. Gli sembra che abbiano letto nel profondo della sua anima, poi allontana il pensiero con fastidio.

Si avvia verso la porta e improvvisamente lo investe il suono di tutte le voci, tutte insieme. Voci uniche, con una nota particolare, con un accento: prima erano come un muro indistinto, ora gli sembra di poterle percepire ad una ad una, di poterle dipanare come i fili di una matassa intricata. Voci uniche, irripetibili. Voci di uomini vivi.

Pensa che basterebbe poco, potrebbe voltarsi e urlare, sovrastare tutte quelle voci con la sua e la Storia cambierebbe, il destino di tutte quelle voci sarebbe diverso.

Già, lui ora sta facendo la Storia, è l’arbitro supremo.

Lui, in questo istante, è il Demiurgo, è Dio.

E’ sulla porta.

Un’ultima esitazione. Sente lo sguardo del ragazzino ancora fisso sulla sua schiena.

Una spinta alla maniglia.

E’ fuori.

L’aria fredda invade i polmoni quasi con violenza, si stringe nell’impermeabile, mentre l’andatura si fa più sostenuta. Tutto attorno la gente continua a muoversi, a incrociare i propri destini col suo.

Le disposizioni sono chiare, l’appuntamento è tra poco, non c’è tempo da perdere.

All’improvviso, però, si ferma.

E’ come attratto dalla piazza, sente di non potersene andare così, senza prima vedere, senza prima rendersi conto.

Piega sulla propria sinistra e si avvicina al muro di un palazzo, rallenta, si ferma, fruga nelle tasche come stesse cercando le sigarette.

All’improvviso il tempo rallenta, si cristallizza. Una nebbia leggera sfuma i contorni degli edifici e le luci sono pallide. Come in un sogno. L’uomo prova la sensazione che nulla di quanto sta vivendo sia effettivamente reale.

È in ritardo, non dovrebbe già più essere lì.

Gli ordini erano tassativi.

Eppure resta al suo posto, inchiodato da una forza senza nome.

Solleva lo sguardo e nota che sta sopraggiungendo un uomo di poco più anziano di lui, le braccia cariche di borse e pacchetti. L’uomo con l’impermeabile lo esamina con improvviso interesse. Lo colpisce l’aria trasognata dell’altro. Prova un moto di ripulsa. Eccoli lì, gli italiani, si dice. Tengono sempre e soltanto famiglia. Offrigli panem et circenses e li farai felici, avrai un popolo genuflesso, una nazione prona. Anzi, neanche una nazione. Un paese. Un paese di pecore belanti. Feroci, però, nel difendere i loro miserabili privilegi da servi e cortigiane.

E invece, ancora una volta, ci sarà lo scontro del sangue contro l’oro, pochi eletti si ergeranno a salvare l’onore di un popolo di vinti.

Ecco perché il suo incarico è così importante e lui sa di averlo eseguito alla perfezione.

Non riesce a sentirsi appagato, però.

Ci sono altre istruzioni da seguire con precisione, occorre disimpegnarsi rapidamente, allontanarsi.

E, invece, non riesce a muovere un solo passo.

Sente una tensione insostenibile crescere dentro, il suo istinto lo avverte che è un errore grave rimanere lì. L’altro individuo è ormai accanto a lui, non vale la pena di farsi notare. L’uomo con l’impermeabile decide di riprendere la propria strada.

L’esplosione arriva improvvisa, violenta, definitiva.

L’urto dello spostamento d’aria piega le ginocchia, mentre una pioggia di vetri polverizzati, calcinacci, polvere, fumo, carta, membra umane invade lo spazio circostante, ricadendo repentina e fragorosa al suolo.

Poi il silenzio.

Un attimo eterno di silenzio irreale.

Tutto è immobile. In quell’interminabile secondo il tempo davvero si ferma.

Silenzio.

Un lamento, due… urla laceranti salgono improvvise dalle viscere della banca sventrata, sembra di sentire la voce stessa della terra violentata e ferita a morte.

Questa è la Storia che lui ha scritto.

Ora può vederla, se avanzasse pochi metri potrebbe persino toccarla con mano.

L’uomo accanto a lui si volta attonito a guardarlo, per un attimo. Ha la sensazione che pronunci qualche parola al suo indirizzo, poi lo vede correre verso la banca, nella foga gli sfugge una busta di plastica, un pacchetto cade al suolo lacerandosi. Mentre in Piazza Fontana si scatena l’inferno, lui rimane assurdamente immobile a considerare una macchinina che fa capolino dall’involucro colorato del pacco abbandonato al suolo.

Poi si volta e se ne va.

Ormai è lontano, procede con passo spedito.

Balza al volo su un tram, che si allontana in direzione di corso Magenta, carico di persone che si interrogano a vicenda su tutto quel correre di ambulanze e auto della polizia, le sirene spiegate a lacerare quel pomeriggio milanese di spese natalizie in cui è stata scritta la Storia.

Le ipotesi più varie e fantasiose si inseguono e si accavallano sulla piattaforma del tram, ma l’unica persona che conosce la verità è quella figura alta e silenziosa, dall’impermeabile chiaro leggermente impolverato, che nessuno nota mentre guarda fuori dal finestrino senza vedere nulla.

Tutto sta accadendo vorticosamente attorno a lui, senza che possa più intervenire. Ora non è più Dio, non è più il Demiurgo, ma è un uomo in fuga, un piccolo meccanismo di una Storia tracciata da altri e che altri porteranno a compimento.

Cerca di allontanare questi pensieri e di recuperare la concentrazione.

L’appuntamento di riserva è tra poco, un’auto amica lo porterà lontano da lì, al sicuro.

Chiude gli occhi, si passa una mano sulle palpebre chiuse, prova a pensare al fatto che in questo momento, in tutta Italia, sta accadendo lo stesso, tante bombe per dei colpevoli già definiti… prova a evocare ancora una volta la lotta del sangue contro l’oro, ripensa all’autunno caldo, cerca nella memoria le scene di piazzale Loreto, vorrebbe attribuire al suo nemico un volto preciso, sentire l’odio scorrere nelle vene, ma riesce a vedere solo lo sguardo del ragazzino, l’urlo muto dell’uomo accanto a lui sulla piazza.

Li vede e li rivede, come un film ossessionante e inesorabile, finché non comprende il loro messaggio senza parole.

Ormai, nessun luogo e nessun tempo saranno abbastanza lontani e sicuri per lui.