“Creare un nuovo linguaggio cinematografico”: questo l’esplicito intento di Patrick Tam nel lontano 1979, anno in cui stava girando The Sword. Se per molti versi il primo film del regista è ancora legato alla tradizione, benché si impegni a rifondarla in termini puramente estetici riprendendo e amplificando la lezione di King Hu, con il secondo lungometraggio Love Massacre, del 1981, Tam dà libero sfogo alla sperimentazione, creando un’opera originalissima e pienamente consona alle sue idee di innovatore. In particolar modo, l’uso del colore costituisce la quintessenza del film, arrivando ad assurgere a vero protagonista, come dichiarato dallo stesso Tam alla presentazione in sala del film durante il FEFF di Udine: “the colours red and blue are the most important things in the film and the actual protagonists”. Ciò ci ricollega a un bell’articolo, riprodotto nel catalogo della mostra, che Tam scrisse due anni dopo la realizzazione di Love Massacre, nel 1983: On Colour. Qui il regista riflette su come il colore possa essere trattato come entità indipendente e individuale all’interno del linguaggio cinematografico, attuando la cosiddetta “separazione” del colore stesso dagli elementi oggettuali della realtà filmata. In questo modo, gli attori/gli oggetti e i colori vengono filmati quasi in parallelo, e “a connettere questi due mondi vi sono i cambiamenti che accadono nell’ordine delle cose e i cambiamenti nell’ordine dei colori”, come ad esempio immettere un elemento rosso all’interno di un’inquadratura in cui dominano il bianco e il blu per anticipare l’effetto di un’improvviso evento drammatico o imprevisto che sta per sopraggiungere. L’effetto che si crea è quello di due universi distinti l’uno dall’altro, quello dei colori e quello dei personaggi, che interagiscono grazie all’energia “pura” sprigionata dal colore come essenza immanente a se stessa e non alla cosa che raffigura o alla persona che avvolge. Eliminando i passaggi intermedi da un colore all’altro, ci dice ancora Tam, il colore si trasforma così in una “penisola” a se stante, in uno spicchio di verità tangibile e incontestabile.

La separazione più avanti teorizzata da Tam in termini analitici viene realizzata nel film con l’utilizzo di colori primari, essenzialmente il rosso e il blu, a cui si aggiungono per effetto di contrasto il bianco e il nero. Ispirandosi ai quadri stilizzati di Mondrian, ma soprattutto a quelli di Rothko, in cui ogni colore è esplicitamente separato dagli altri perché racchiuso nel suo microcosmo grazie a una linea di demarcazione, o un insieme che lo isola dai colori circostanti creando delle vere e proprie condense di tinte differenti, in Love Massacre Tam filma il farsi presenza ed essenza del colore nel suo sfuggire alla rappresentazione del reale, per rivendicare la propria identità. O, per dirla ancora con le sue parole, per essere “BLU” senza essere più associato al “mare”. In molte inquadrature, i personaggi passano in secondo piano rispetto ai colori visualizzati, come ad esempio nella scena in cui la protagonista Ivy (Brigitte Lin) e Louie (Charlie Chin) visitano un museo parlando del male che corrode l’aspirante suicida Joy (Tina Lau Tin–lan) e il suo labile fratello Chiu Ching (Cheung Kwok–chu).   “Il quadro del film è movimento su una superficie piatta”, dice ancora Tam, ed è proprio grazie al colore e alla sua scansione sullo schermo che la struttura narrativa del film prende forma. I blu, i bianchi e i rossi stanno lì a denotare, o piuttosto a sostituire, lo stato d’animo dei protagonisti - il rosso per la follia e la passione, il bianco per l’innocenza, il blu per i momenti di attesa - in modo che il dramma che si consuma lento nel dispiegarsi della storia si riveli da sé, senza eventuali climax o risvegli da parte dei personaggi che ne accentuino la supposta funzione decorativa. Per Tam, infatti, la funzione del colore è semmai quella di esistere senza vincoli e dunque di liberare la narrazione da ogni possibile vincolo per abbracciare il chroma assoluto, simboleggiato dall’abbraccio finale e fatale tra Chiu Ching e Ivy, entrambi vestiti di bianco ma circondati da lenzuola rosse e separati ma uniti dagli schizzi violenti di sangue che imbrattano i vestiti di lui come una tela impura e morente.

Ma qual è l’effetto complessivo di questa sperimentazione sul colore come entità a se stante rispetto alla materia narrata? Perfezionista e ipercritico con i suoi lavori passati, di fronte al pubblico Tam non esita a definire Love Massacre “a schizofrenic film in terms of form and content” dichiarandosi non soddisfatto del risultato (come già per The Sword), anche perché l’unica versione esistente dell’opera è pesantemente tagliata nella parte finale. In effetti, già a partire dal titolo, che associa un concetto nobile e positivo come quello dell’amore a uno molto più torbido e violento come quello del massacro, il film si configura come permeato da un’anima ibrida o per lo meno dissociata, in cui la separazione fra colori da un lato e personaggi dall’altra crea una generale atmosfera di universo raggelato e distante che molti critici dell’epoca trovarono troppo estetizzante perché lontana dalla realtà di tutti i giorni (Fung Lai–chi definì addirittura le storie descritte da Tam come “contorte e non umane” nel Film Biweekly). In realtà la forza del film risiede proprio in questa schizofrenia di fondo, che poi va ad abbracciare anche la struttura narrativa del film, che parte come una sorta di storia d’amore complicata fra Louie e Joy da una parte e Ivy e Chiu Ching dall’altra per poi sfociare, dopo la parentesi del suicidio di Joy e dell’allusione via via sempre meno velata alla follia di Chiu Ching, in uno slasher tinto di uno humour nerissimo che sconcerta per la sua violenza contratta e allo stesso tempo feroce, di fronte alla quale lo spettatore non può che rimanere attonito e stupito per l’improvvisa virata cupa della storia, alla cui estrema crudezza (e chissà quanto ancor più estrema doveva essere nell’edizione originale) nessun elemento del film ha sufficientemente preparato in precedenza. È come se lo spettatore, distratto o attratto dai giochi di potere fra un colore e l’altro, subisca senza difese il crollo degli eventi e la loro apparizione sullo schermo, finendo per rimanerne ancor più scioccato per la loro evidente e ingiustificata esagerazione. È pur vero però che alcune “esecuzioni” realizzate da Chiu Ching all’interno del suo personale mosaico del massacro figurano più come delle composizioni pittoriche, dei dripping à la Pollock, o plastiche, quasi degli oggetti d’arte situazionista disposti lungo il dormitorio a mo’ di tracce della follia che lacera l’uomo senza sosta. Ma è altrettanto vero che lo scarto improvviso e quasi inaspettato tra la prima parte e la seconda rappresenta una delle caratteristiche che più hanno fatto amare il cinema di Hong Kong a tutti i suoi appassionati: quella di contravvenire spesso a ogni regola di uniformità della narrazione attraverso la coesistenza di più generi, spesso dissonanti fra loro, all’interno di un’unica opera, spesso con la voluta intenzione di farsi beffe delle aspettative dei fruitori. In tal senso, Tam gioca volutamente con le abitudini degli spettatori attraverso l’utilizzo di alcune star dei melodrammi taiwanesi del tempo (Brigitte Lin e Charlie Chin in primis, come ricorda lo stesso Fung Lai–chi nel suo articolo) facendoli precipitare dentro una storia che scivola inesorabilmente verso la morte cancellando ogni ipotesi di assistere a un’ennesima e rassicurante storia d’amore. La schizofrenia del titolo, associata alla non dipendenza del colore dai personaggi e viceversa, crea un effetto generale di vuoto in cui gli attori vagano sospesi simili a marionette in balia degli eventi (verrebbe da dire in balia delle pennellate di realtà che giungono improvvise gocciolando sui loro volti di maschere impassibili e fredde). La schizofrenia della sostanza - i colori distinti nettamente l’uno dall’altro e separati o come sfuggiti alla presa di possesso da parte degli oggetti e dei corpi – in effetti riflette ed echeggia la schizofrenia dei personaggi e in particolare evidenzia la loro incapacità di interagire con il mondo circostante e con se stessi. Il setting, una San Francisco scelta per motivi di produzione eppur perfetta per veicolare un senso di vertigine con le sue strade in pendenza, appare anch’esso sospeso nel tempo e nello spazio come se rappresentasse nient’altro che un mero fondale per gli esperimenti cromatici e semantici messi in campo da Tam. Gli stessi personaggi, spesso tacciati di inconsistenza (così come la sceneggiatura), non sono altro che una semplice tavolozza sulla quale applicare la struttura dei colori per edificarvi la loro storia astratta e simbolica, alla quale il viso di Brigitte Lin, dai lineamenti ancora per molti versi “dolci” ma che già precludono all’irresistibile maschera da creatura gelida e insieme magnetica da lei adottata nei film successivi (Zu: The Warriors from the Magic Mountain di Tsui Hark è soltanto di due anni più tardi, 1983),  dona una sua timida eco, quasi un urlo munchiano inespresso ma tuttavia interamente contenuto nell’ovale dello sguardo, nella bocca raggelata e incapace di dire a parole tutto l’amore, tutta l’incomprensione e la mancata verità che il coltello affermerà al suo posto dando la morte a Chiu Ching. Il fatto che tutto il film sia poi racchiuso nella cornice del deserto di Mohave in cui la protagonista, per dirla con Pezzotta, “è come se evaporasse”, accentua ancora di più questo generale senso di spaesamento dei personaggi (o personae, maschere, loro stessi quadri all’interno di un altro quadro in cui gli attori principali sono i colori primari) di fronte allo sfuggire di senso insito nelle cose e fermamente voluto da Tam per la sua impossibile ricerca di azzurro di mallarmiana memoria, che in questo caso sostituisce il bisogno di parola assoluta con quella di colore altrettanto assoluto. Se Tam ribadisce durante il panel a lui dedicato che i suoi, più che film veri e propri, sono da considerare degli “attempts of cinema”, si può (e si deve) però riconoscere che Love Massacre sia non semplicemente un film, ma “il” film simbolo della concezione del cinema che il regista cercò di perseguire e di realizzare negli anni ’80, con risultati spesso sorprendenti e geniali.