Sicuramente uno dei regali più belli concessi a chi seguiva il FEFF 26 da casa è stato quello di poter assistere all’evento che ha visto protagonista il regista Zhang Yimou. Presentato ufficialmente con una masterclass, in realtà era organizzato più come un’intervista che come una vera e propria lectio magistralis: introdotto da Sabrina Baracetti, il cineasta cinese ha infatti risposto alle domande rivoltegli per lo più da Peter Loehr, produttore del film The Great Wall (2016).

Nel corso dell’intervista, Zhang ha avuto modo di ripercorrere il proprio esordio alla regia, dall’entrata in Accademia nel 1976 dopo la graduale riapertura delle scuole e delle università (rimaste chiuse dal 1968 al 1972 come effetto collaterale della smobilitazione delle guardie rosse, inviate nelle campagne a rieducarsi ma di fatto perdendo completamente la possibilità di accedere all’istruzione superiore), al lavoro preliminare come direttore della fotografia. Fra i ricordi degli esordi, spicca anche un’incursione fortuita nel mondo della recitazione come protagonista di Yellow Earth di Chen Kaige (1984), per la cui performance Zhang vinse anche un premio come miglior attore al Festival Cinematografico di Tokyo.

Il regista ricorda quest’episodio agli albori della sua carriera come frutto di un approccio pragmatico da parte di tutta l’équipe che diede vita al film del collega Chen, come lui fra i maggiori protagonisti della Quinta Generazione. Poiché la parte del protagonista era quella di un contadino, la troupe necessitava di un attore che avesse un fisico mingherlino, proprio come Zhang Yimou. Il regista Chen Kaige e tutti i membri impegnati nel casting lo presero subito come modello di riferimento per trovare l’attore ideale e, visto che dopo tanto cercare nessuno sembrava adatto alla parte, Chen Kaige propose proprio a lui di recitare. Ripensando a quel periodo, e al premio che poi gli venne conferito, Zhang afferma di non ritenere di aver recitato così bene, ma che quell’esperienza gli diede il coraggio di osare, utilizzandola come merce di scambio: “visto che io ho recitato nel tuo film”, disse spavaldo a Chen Kaige, “il prossimo film lo farò da regista e non più come direttore della fotografia”. E fu così che nacque la sua prima opera, Sorgo Rosso (1987).

Ben presto vennero anche le partecipazioni ai festival internazionali come autore: per i cineasti della Quinta Generazione, in particolare, tali eventi rappresentarono un’apertura inedita al mondo esterno, visto che la Cina era rimasta isolata a lungo per via della dell’autosufficienza economica, culturale e politica voluta da Mao Zedong. Ancora oggi, afferma Zhang Yimou, i festival rappresentano un momento preziosissimo di incontro fra cineasti – cita ad esempio il suo primo incontro con Kuo-fu Chen all’Hong Kong Film Festival e quello con Hou Hsiao Hsien al Festival del Cinema di Venezia alla fine degli anni ‘80– ma soprattutto il modo migliore per entrare a contatto con il pubblico. Il FEFF di Udine, precisa il regista, è oggi il più grande festival dedicato al cinema asiatico sia in Europa che in Asia; i suoi organizzatori e il suo pubblico dovrebbero esserne orgogliosi, perché permette sia ad autori affermati come lui che ad autori giovani di incontrare gli spettatori, e ciò ha un valore inestimabile, vista la diffusione delle piattaforme streaming che sta trasformando la fruizione delle opere cinematografiche in qualcosa di individualistico e solitario. Dal canto suo, Zhang ha sempre partecipato ai festival e non smetterà mai di farlo, ma forse, aggiunge, per lui è più facile perché è già conosciuto al pubblico, mentre per i giovani talenti i festival rappresentano un modo insostituibile per farsi conoscere.

Certo, oggi anche il modo di fare cinema è cambiato radicalmente rispetto al passato, prosegue Zhang. Alla domanda “in che modo i cambiamenti nel cinema cinese hanno influenzato il suo modo di fare cinema”, il regista precisa come il mondo contemporaneo sia caratterizzato da qualcosa di inedito dal punto di vista tecnico: tutti ormai possono realizzare video e diventare registi. Anzi: visto che ormai a livello tecnologico c’è poco divario fra i professionisti del settore e persone che si dedicano a queste cose a livello amatoriale da autodidatti, Zhang Yimou arriva ad affermare che tutti oggi sono registi, e forse anche attori. Basta dare uno sguardo ai post caricati su Wechat (un sistema misto di messaggistica istantanea, microblog, social network e canale di pagamenti elettronici molto utilizzato in Cina, nonché una sorta di sintesi fra Whatsapp, Facebook, Instagram e Paypal messi tutti insieme in un unica app) per rendersi conto di quanta vitalità sia racchiusa nello sguardo e nelle parole di utente casuale qualsiasi, non necessariamente da qualcuno ufficialmente definito come artista. Una volta, aggiunge Zhang, il regista era visto come qualcuno dotato di una conoscenza e di un talento superiore, ma oggi che tutti possono accedere alla conoscenza, grazie anche all’ausilio delle AI; ciò che invece fa la differenza è il sentimento, la capacità di saper esprimere qualcosa in grado di commuovere. Il suo lavoro consiste oggi nel visionare tantissime sceneggiature; nell’orientarsi su cosa scegliere, Zhang non ha dubbi: se ciò che legge arriva a commuoverlo anche più di una sola volta, allora vuol dire che quello è un film che deve fare assolutamente, altrimenti lascia perdere. Creare empatia: questo è il compito dell’arte nel presente, e secondo lui lo sarà sempre di più nel futuro, quando a lavorare ad un film rimarranno solo poche persone – l’attore, il regista e il cameraman, perché tutto il resto verrà realizzato dalle AI. Ma il loro compito insostituibile sarà quello di generare sentimento ed emozione nelle persone, e dunque di condividere qualcosa a livello interiore.

Indubbiamente, dice Zhang, siamo delle creature emozionali che amano condividere quello che fanno: postiamo contenuti perché vogliamo far sapere agli altri ciò che siamo e che pensiamo. Questo è l’elemento essenziale dell’arte, ed è ciò che non verrà mai meno. Ecco perché una sala piena di 1000 persone, come quella del FEFF di Udine, è un evento prezioso, perché è ormai raro. In Cina, spiega il regista, ci sono tantissimi cinema, ma si tratta per lo più di piccole sale destinate alle coppie che vogliono starsene per conto proprio, lontane dalla folla e dal caos. Però paradossalmente, anche se alcune persone vogliono fuggire dal clamore del mondo, tutto oggi è obiettivamente più veloce: il ritmo stesso dei film, ci ricorda Zhang, è cambiato radicalmente rispetto a quando lui ha iniziato a farli. Oggi Lanterne Rosse potrebbe sembrare un’opera lenta, mentre 33 anni fa probabilmente non lo era. Oggi tutto è informazione, e le informazioni viaggiano veloci. Ma alla base c’è sempre e ci sarà sempre il sentimento,perché è la nostra forza e la nostra motivazione. Magari, aggiunge il regista, fra 100 anni il cinema non esisterà più, ma il sentimento ci sarà ancora.

La domanda successiva riguarda la scelta degli attori: molti dicono che scegliere l’attore giusto sia la sua specialità, e probabilmente è vero, ammette Zhang Yimou, perché ha acquisito un metodo ben preciso nel corso degli anni. Lavorare lui stesso come attore lo ha in effetti aiutato a capire chi e come cercare. Innanzitutto, lui e la sua squadra fanno un lavoro preliminare di ricerca attingendo dalle scuole d’arte; non cercano talenti “per strada”, perché si trattenerebbe di dover addestrare qualcuno ex novo, e non sarebbe un metodo efficiente. Successivamente, si seguono dei criteri molto semplici ma precisi: le persone che passeranno la selezione preliminare devono essere di bell’aspetto e adatte a quella parte specifica. Poi, si passa ai servizi fotografici: la sua esperienza da direttore della fotografia lo ha spinto negli anni a cercare di catturare tutte le espressioni possibili di un volto e di un corpo, per capire se quella persona è adatta al suo progetto oppure no. E poi ovviamente ci sono la voce, il modo di camminare, la recitazione, la capacità di sviscerare le emozioni senza provare imbarazzo. Tutta questa operazione di ricerca e analisi richiede un anno intero.

In alcuni casi, gli attori scelti sono star internazionali, e vengono reclutati in maniera differente perché c’è la produzione internazionale di mezzo: non parlando l’inglese, per lui potrebbero all’apparenza esserci problemi di comunicazione ma in realtà, precisa Zhang, se chi hai di fronte è un professionista, riesci a capire lo stesso quello che ti sta trasmettendo. L’autore confessa inoltre come per lui l’attore sia la forza di attrazione principale di un film; non è dunque l’immagine a stare al primo posto, né chi la crea, ma piuttosto chi vi sosta dentro. Di conseguenza, il regista non può fare altro che affidarsi a chi recita e, se si tratta di qualcuno che parla un’altra lingua, fidarsi ancor più di dove quell’attore è in grado di condurlo a livello emotivo, perché il linguaggio delle emozioni è universale.

Non mancano le riflessioni sulle esperienze collaterali al cinema, come quella di regista di opera lirica per il Maggio Fiorentino con una produzione della Turandot di Puccini. Qui il regista si abbandona a ricordi divertenti, come quello della scoperta dell’esistenza della “pausa caffè”, che per un cinese abituato a voler e dover fare tutto con efficienza e senza perdita di tempo desta stupore e meraviglia. “Noi in Cina”, precisa, “ci sacrificheremmo per l’arte”: pur di portare a termine un progetto collettivo, in altre parole, le esigenze del singolo vengono messe in secondo piano (e ciò spiega la riuscita di grandi produzionicome quella da direttore artistico dello spettacolo coreografico per le Olimpiadi di Pechino del 2008, di cui però Zhang decide di non parlare durante l’incontro). Esperienze come queste, con realtà straniere e in un paese straniero, sono molto arricchenti per lui, perché invitano alla comprensione reciproca. Oggi ci sono tanti punti di vista differenti, prosegue Zhang, e proprio per questo bisogna imparare ad avvicinarsi, spostare il proprio punto di vista per evitare conflitti. Il cinema può in tal senso rappresentare un ponte che permette di dialogare e di vedere la bellezza dell’altro.

L’intervista prosegue con dei consigli su come intraprendere la carriera da regista eZhang Yimou risponde che occorre coltivare principalmente tre cose: il talento, le occasioni per farsi conoscere dal pubblico e la resistenza. Bisogna insistere, lavorare tanto e non disperarsi mai. Interviene infine Baracetti, che chiede all’autore quale sia il film che predilige fra quelli diretti. Essendo la sua opera prima, Zhang Yimou sceglie Sorgo Rosso; da lì in poi, secondo lui, la sua carriera è stata un perfezionare qualcosa che c’è già stato, con tenacia ed insistenza. Per lui, il talento non è sufficiente, va continuamente allenato. Inoltre, particolare forse curioso in un regista del suo calibro ma che denota una rara obiettività, Zhang confessa di non avere la pretesa di fare un capolavoro ad ogni nuovo film; per lui la cosa più importante è poter continuare a lavorare e ad emozionarsi. In Cina c’è un detto: “non temere di andare piano, ma piuttosto di rimanere immobile”; bisogna dunque impegnarsi constantemente, e sperare che quello che fai sia giusto, anche se non puoi mai saperlo al cento per cento. Sorgo Rosso resta per lui indimenticabile perché si è messo a sperimentare e inventare cose nuove che non aveva mai fatto prima. Poi c’è stata la fortuna critica, i premi e la fama, che per un giovane sono una forma di incoraggiamento incredibile e gli ha permesso di andare avanti fino ad oggi. A Berlino, quando hanno premiato il film, lui non capiva una sola parola di quello che la gente diceva, ma dagli applausi ha compreso di avercela fatta e che il suo compito era quello di resistere, e continuare a fare film per tutta la vita. Ed anche oggi, è quello che continuerà a fare perché, aggiunge, “non avete idea di quanto sia decisivo un applauso per un regista dopo una proiezione in sala”. È ancora una volta la condivisione, il constatare che ciò che hai provato a condividere con gli altri ti torni indietro più forte, più vero, e più bello.

L’unico appunto a questo evento per molti versi straordinario è quello di averlo dovuto vedere doppiato (fra l’altro molto male) in italiano: credo di non essere la sola ad aver pensato che sarebbe stato meglio ascoltare le parole di Zhang Yimou direttamente dalla sua voce con i sottotitoli. In un festival di questo calibro, e visto anche che tutti i film del FEFFerano e sono normalmente tutti gli anni in originale con i sottotitoli (come personalmente credo sia giusto fare, e concordo con Zhang sul fatto che, anche se non conosci la lingua, l’emozione la capisci lo stesso), non dovrebbe avere scivolate di questo tipo, e spero che in futuro vi saranno altre masterclass (vere o presunte che siano, e non c’è nulla di disdicevole ad ammettere che questa fosse un’intervista), ma con la possibilità di sentir parlare i diretti interessati con la loro voce.